24/11/11

Altra Vita

C’è un posto dove la terra assume il significato di una vita altra. Diversa ma possibile. Una scelta. Forse migliore, forse più dura. In questa vita domina il silenzio. L’odore costante del freddo e della legna che brucia. Il profumo dell’erba e del fieno. La melma fangosa dello sterco di mucca e il grugnire dei maiali. La luce scandisce davvero le ore dalla veglia al sonno profondo e nella notte il buio è solo un abisso di nero. Se le stelle si lasciano guardare ti entrano dentro dagli occhi e dalla gola, a miliardi, così tante. Altrimenti è solo il suono placido del vento o del bosco tra l’oscurità dei rami o la nebbia. In questo posto il lavoro è la vita. Lavoro vero, lavoro umano.
Aprire la terra a colpi di zappa per vederne nascere i frutti. Raccogliere i dono del bosco e degli alberi. Nutrire ed allevare le bestie che ti daranno la carne. Il coraggio di far nascere e veder crescere l’animale che ti nutrirà. Il coraggio di ucciderlo con le tue mani. Senza esaltazione. Senza crudeltà. Con un rispetto antico, il coraggio di un gesto la cui umanità si perde nella notte dei tempi. Nessuno più oggi mangia ciò a cui ha dedicato del tempo, dell’affetto, con cui si è sporcato le mani e i vestiti di terra o di sangue. Oggi le cose ci sono da sé, nei supermercati e la carne non è animale vivo di sguardi, respiri, calore ed abitudini. La carne è solo bistecca già pronta mai vista muoversi da muscolo, mai accarezzata dolcemente sul muso. Dova ti restituisce la dimensione dell’uomo. Il rispetto per una vita che non ha altre ambizioni se non quella di essere vita. Poco al di sotto del cielo. Poco al di sopra della terra. Puoi perdere il tuo sguardo in un mare di nebbia. Un’altra vita. Potresti quasi fermarti, forse ritrovare te stesso. Potresti quasi fermarti qui a Dova dove tutto ti sembra vero e sensato. Intensa percezione dell’essere umano.

19/11/11

Il sapore del comunismo

“Il nostro avversario è questo capitalismo totalizzante e incivile! La nostra parola è di nuovo la parola della Liberazione! Grazie compagni!” E mentre il termine compagni gridato con rabbia e con amore restava sospeso nell’aria umida di quella giornata romana, Fausto alzò la testa dal microfono verso la piazza gremita. Quello era il momento più bello. Il segretario aveva concluso il suo discorso. Il silenzio metallico di chi anche sotto la pioggia aveva ascoltato ogni parola immobile e concentrato, si rompeva d’improvviso. Neanche il tempo di battere le mani e con la tromba iniziale “Bandiera Rossa” invadeva la piazza. Irruente sparata al massimo volume dall’impianto stereo del palco. E poi partva l’ovazione, un’ovazione pura sincera forte e di cuore che si mischiava alle parole della canzone
“Avanti o popolo, alla riscossa..” cantava il coro e tutti applaudivano e le bandiere rosse sventolavano tutte. Migliaia. E Fausto stringeva mani ed abbracciava gli altri dirigenti e invitati sul palco. E a quel punto Pedro, il comunista più vecchio di Genova distribuiva bicchieri di plastica e stappava la bottiglia di Rosso-Stalin versando il vino granata nei nostri gotti e invitandoci a brindare a pugno chiuso, al futuro che per lui eravamo noi “…bandiera rossa bandiera rossa…” migliaia sventolavano con energia tagliando l’aria insieme al nostro brindisi. Cremisi vivo sul grigio piombo del cielo e dell’asfalto. E sventolavano forte. E tutti applaudivano e stringevano il pugno e si abbracciavano e sorridevano e si stringevano mani e si scambiavano commenti. Ognuno fratello, ognuno compagno. “E’ dura ma ce la faremo, guarda quanti siamo compagno, guarda quanti siamo!” “…bandiera rossa trionferà!” E ti guardavi in giro e vedevi solo la felicità di chi si univa nella lotta. E c’erano tutti da tutta Italia. Pacche sulle spalle e complimenti per la riuscita del corteo. E poi da sotto il palco in lontananza partiva il coro. “Soli! Soli! Soli! Soli!” e come acqua versata in un piatto vuoto si espandeva orgoglioso nella piazza “ Soli! Soli! Soli!” ed arrivava a noi che ci univamo col pugno stretto al cielo“Soli! Soli! Soli!” fieri ed orgogliosi davvero per una volta, per una volta almeno. La voce usciva dall’anima come una liberazione “Soli!” E a quel punto Pedro ci regalava il vuoto del Rosso-Stalin e riempiva nuovamente i bicchieri con del Rossissimo-Lenin. E si brindava di nuovo mentre Fausto salutava la piazza. E le bandiere sventolavano forti, senza sentire stanchezza, sempre di più. “ …Dai campi al mare, alle miniere..” A queste elezioni ci andremo soli. Senza accordi con i finti comunisti, con quelli che di sinistra si dicono ma non sono. Ci andremo soli, perché noi siamo i comunisti, perché noi siamo i giusti, perché oggi siamo tantissimi e presto arriverà la rivoluzione. E’ qui dietro l’angolo. E in quella piazza c’erano tutti, gli studenti, gli operai, i giovani, i vecchi e tutti applaudivano e sventolavano. Era una giornata di festa. Il Che ci guardava da mille bandiere e le falci e i martelli si incrociavo sulla pelle e sui corpi. E ci si credeva, ci si credeva davvero. Soli. Rossi, sotto un cielo livido di pioggia che non ci bagnava. Moltitudine comunitaria unita sotto il simbolo di quella bandiera, di quelle bandiere. In bocca il gusto del vino negli occhi il sapore del comunismo. Un comunismo nato nel segno della rifondazione. Un brindisi. Eravamo tanti, eravamo forti, eravamo belli. Belli davvero. Ora so che quei momenti non torneranno più. So che non sarà mai più così. Non ci sarà più il segretario di circolo che alle sei del mattino sul treno appena partito per Roma tira fuori una bottiglia di grappa e inizia a distribuirla ai suoi giovani per farli pronti ad affrontare il lungo viaggio e il corteo. La piazza fraterna e inquadrata si è persa nei primi anni del millennio. Il novecento è finito. Ora è più difficile. Forse anche meno bello. Ma non per questo meno necessario. Ma se potessi scegliere... se mi donassero indietro dieci minuti di politica viva da poter rivivere, sceglierei quelli. Quelli senza tempo che partono dall’ultima frase del discorso di Bertinotti a quella manifestazione nazionale del partito. Il patetico mi fa ridere. Bandiera rossa è l’unica cosa che mi commuove nella vita. Grazie compagni!

14/11/11

Gli angeli non esistono

7 novembre 2011

Dopo la furia del fiume soltanto il Fango. Il fango è uno schifo. Melma viscida che filtra tra i vestiti e impregna i tessuti. Si appiccica al viso e indurisce i capelli. Penetra, si insinua negli ingranaggi dei macchinari da lavoro e li rende inutilizzabili, bagna i circuiti elettrici, si espande come se non avesse forma né dimensione allagando tutte le superfici disponibili. Poi rimane lì a seccare, a corrodere, a farsi terra. Massa devastante che sembra infinita, da mandare via a piccoli colpi di pala. Nella tragedia le ingiustizie appaiono per quello che sono, l’usurpazione della dignità dell’uomo, i piedi nel fango di una città devastata. Eppure, nell’acqua gelida, ai piedi degli alluvionati se ne sono aggiunti migliaia. Piedi amici, piedi fratelli, piedi che tra loro si conoscevano o che tra loro non si erano mai visti. Piedi compagni ricoperti di terra bagnata. E insieme ai piedi sono arrivate le braccia, i secchi, le pale le mani. Decine di migliaia. Non angeli ma uomini e donne. La decisone di mettere in gioco i corpi e il sudore, di fronte ad una società e a delle istituzioni che, dopo essere stati la causa di una tragedia, non sono stati in grado di rispondere all’emergenza. E nei visi, nell’animo di chi spala e si sporca, il brivido di una consapevolezza. La consapevolezza dell’autorganizzazione . Lavoratori, operai, studenti, disoccupati, lavoratori appena licenziati affossano la precarietà delle loro esistenze per mettersi insieme e medicare la ferita pulsante dell’alluvione. Nessuna delega, nessun capo, nessuno stipendio, nessun orario di lavoro. Soltanto una necessità condivisa e l’azione pratica del fare. Negozi, case, cantine sono svuotate a braccia. Le pale affondano, i secchi pieni di fango e pietre sono svuotati, in un tempo brevissimo i posti e le strade sono ripulite. I mezzi per lavorare sono comuni, chi ha qualcosa lo porta e tutti lo usano perché quello che conta è lo scopo. Sporcandoti le mani fianco a fianco con un uomo che non hai mai visto ma che in quel momento è tuo compagno. L’autorganizzazione funziona. Funziona meglio di una società che ha costruito sui fiumi, che non ha guardato al bene comune ma al bene di quei pochi che costruendo si sono arricchiti. L’autorganizzazione è l’antitesi dell’interesse speculativo, base del nostro sistema politico e sociale. Si fanno girare miliardi per imporre mostruosità inutili violentando la natura che ci circonda, violentando il bene comune. Mancavano 300.000 euro per completare la messa in sicurezza del Ferreggiano ma i soldi sono stati spesi in un altro modo. Guerre, armamenti militari, l’esercito e la polizia mandati dallo Stato in Val Susa a difendere il cantiere di una TAV che nessuno tra la popolazione vuole. Il progetto di chilometri di cemento per la Gronda Autostradale genovese. Tutto è diventato un affare: le privatizzazioni di beni comuni quali l’acqua, i trasporti pubblici, la sanità, la scuola e l’università. Questa società, questo sistema non funziona. Lo si vede, lo si sente nella precarietà della vita eletta a pane quotidiano dell’esistenza comune. Situazioni di emergenza e di necessità si presentano ogni giorno nella vita di sempre più persone. Licenziamenti di massa, disoccupazione, mancanza di servizi essenziali. Il sistema capitalistico finanziario, lontano ed astratto, si inventa una crisi e specula creando malessere diffuso nella società. L’autorganizzazione di migliaia di persone ha lavato via il fango dell’alluvione. Ha cambiato il drammatico stato di cose presenti lasciato dalla pioggia e dall’esondazione dei fiumi. L’autorganizzazione funziona ed oggi è una necessità estesa perché il sistema è pieno di fango anche quando non piove. E’ venuto il momento lavarlo via. E’ venuto il momento di sporcarsi le mani. E’ venuto il momento di autorganizzarsi e cambiare lo stato di cose presenti.

Assalti frontali

(Ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale)
Val Susa 03/07/2011
Pietro chiuse gli occhi ed inspirò profondamente. Il sole era alto e un vento morbido accarezzava l’erba in un dolce fruscio. Da quel prato sul monte si dominava quasi tutto il fondo valle. Dietro di lui una processione ininterrotta di uomini, donne giovani e vecchi si addentrava in fila indiana nel bosco sottostante. Non si potevano contare. Erano migliaia. Qualcuno in piedi, in attesa come lui, scrutava dal bordo del prato. Pietro chiuse gli occhi ed inspirò profondamente. La montagna. La quiete, il silenzio. L’aria pura, il fruscio dell’erba e delle foglie. Lo scorrere impetuoso del torrente. Il canto sereno di cento tipi di uccelli. La montagna. Oggi non era così. Pietro chiuse gli occhi ed inspirò profondamente. E quello che gli arrivò tagliente al naso fu l’odore acre dei lacrimogeni. Pietro chiuse gli occhi ed ascoltò. E il suono che arrivò alle sue orecchie fu quello di mille voci impazzite, esplosioni, grida continue e schianti. Mentre con una calma quasi religiosa, la processione continuava dietro le sue spalle, verso il bosco, verso il fondo valle. Pietro aprì gli occhi e si girò a guardarli sfilare. Camminavano lenti senza fretta. Nonostante il caldo molti erano i guanti, le felpe, i cappucci. Quasi tutti indossavano scarponcini. Alcuni parlavano piano, pochi ridevano. Le mani andavano a cercare oggetti che più che protezione davano sicurezza. I fazzoletti che sarebbero andati a coprire i volti. Le bottigliette piene di acqua e limone o di soluzione basica da versare su visi irritati. I caschi, le maschere che a poco sarebbero servite. Tutti sapevano cosa li attendeva laggiù, tutti lo immaginavano. Nessuno si fermava. Il passo non era affrettato ma era deciso. Negli occhi di ogni colore brillava quella luce intensa che dall’iride contrastava i bagliori del sole. Una luce che diceva questa volta andiamo avanti. Questa volta siamo pronti. Questa volta ad avere paura sarete voi. Dalle pupille cristalline si irradiava nei capillari di tutto il viso. Scendeva penetrante di adrenalina lungo il collo, le spalle, le braccia. Colava lungo la cassa toracica avvolgendo le gambe e insinuandosi decisa nella pianta e nelle dita dei piedi per poi risalire e filtrare elettrica contemporaneamente nel cuore e nelle mani. Le dita si chiusero a pugno e a quel punto una percezione fu chiara nella mente. Siamo pronti. Quella luce, quella sensazione, quella decisione si chiama lotta.
La montagna. Vette, cieli, silenzi dove l’uomo misura il grado della propria esistenza. Bisogna saper rispettare la montagna, capirne l’essenza di purezza vitale. L’uomo deve piegarsi alla maestosità impervia della roccia che affiora dai boschi e dalla terra. La furia della montagna quando si scatena è incontrollabile. Non si può stuprare la montagna. Scavarla, tagliarla, intossicarla con i gas. La montagna non perdona. Ci sono uomini che non lo capiscono. Mai hanno davvero vissuto lo scorrere della vita in alta quota. L’unico oggetto delle loro menti è il lucro. Annebbiati dal loro stesso cervello di lardo mandano servi armati di scavatrici, picconi, scudi e manganelli a conquistare territori da violentare. E’ sempre successo. E’ già successo anche qui. Pietro girò le spalle alla valle. Al fumo bianco dei lacrimogeni che dolcemente innevava l’erba lontana. Pietro calcò il primo passo in direzione del bosco. Un solo pensiero attraversava la sua mente.
Quel giorno non sarebbe successo. .
.
. Mattia scendeva lungo il sentiero nel bosco. La discesa tra gli alberi durava ormai da almeno un’ora. Aveva perso da tempo i suoi compagni nella folla della valle. Camminava solo, insieme a centinaia di manifestanti verso il fondo, verso quegli spari, quelle grida che arrivavano costanti. Sul sentiero franoso non si poteva che camminare uno davanti all’altro. Più si scendeva più l’odore forte dei lacrimogeni si faceva intenso. Presto gli occhi si fecero rossi e si iniziò ad avvertire una sensazione di pizzicore fastidioso sulla pelle. Eppure, lo sapeva, era ancora lontano. Davanti a lui camminavano due ragazzi. La maschera antigas appesa al collo, il casco che pendeva dallo zaino. Affianco a loro un uomo. Sessant’anni, la stazza robusta da boscaiolo, i baffi di una vita, la camicia a quadri da montanaro e sulla spalla l’asta di plastica con la bandiera bianca del No Tav. Tutti seguivano lo stesso passo, tutti avevano la stessa luce negli occhi. Dietro di loro camminando tre ragazze discutevano sulla presenza sempre più avvertibile dei gas. Sopra le ultime foglie del bosco rombava molesto e vicino l’elicottero. Non poteva penetrare con gli occhi in mezzo ai rami ma contribuiva a spargere i fumi tossici per tutta la vallata. Si stavano avvicinando. Ogni tanto incrociavano gruppetti che risalivano. Facce paonazze, occhi iniettati di sangue. Sputavano e tossivano premendosi limoni sugli occhi e sulla bocca. Eppure, lo sapeva, erano ancora lontani. Il sentiero era franoso. Nello scendere bisognava fare attenzione a non far rotolare giù pietre. Scavalcarono un tronco caduto di traverso sulla via durante chissà quale tempesta. Mentre attendeva che chi gli era davanti passasse oltre, Mattia incrociò gli occhi con un ragazzo che tornava in su. Erano di un azzurro intenso e dal suo volto non traspariva la minima emozione. “Com’è giù?” chiese Mattia “ Ci stiamo dando da fare” fu la risposta “Ma sparano centinaia di lacrimogeni ad altezza d’uomo ed è difficile stare. Proprio ti puntano. “ Tirò su una mano con due dita avvolte in un fazzoletto rosso di sangue. “ Mi hanno preso alla mano. Mi son rotto due dita” le dita scorticate erano gonfie ed ustionate ed alla base dell’indice, tra il rosso cremisi, l’osso era esposto. Doveva provare un male atroce ma il volto e la voce del ragazzo erano totalmente impassibili. “Bastardi! Ti serve aiuto? Se vuoi ho del disinfettante” “ No grazie, vado giù a Torino a farmi medicare che qui non si sa mai … state all’occhio giù!”
PUF, PAF, PUF. Da sotto, da un sotto indefinito al di là degli alberi, continuava ad arrivare il rumore del lancio di lacrimogeni assieme ad un vociare concitato.
SBRANG! “E quest’esplosione che cazzo è?” pensò Mattia immaginandosi chissà quale cannone lancia lacrimogeni. “Questi non sono lacrimogeni, questi siamo noi…” disse uno dei ragazzi davanti, come a leggergli nel pensiero. Un sorriso veloce passò sul suo viso. Si stavano avvicinando. Sempre più incontravano persone che tornavano indietro. Le ombre del bosco coprivano ogni cosa. Ogni tanto, guardando bene, nella luce che filtrava in fondo tra le foglie si intravedeva il blu lontano di qualche casco o di qualche camionetta, ma era impossibile capire cosa stesse succedendo. Arrivarono ad uno slargo. Erano quasi alla base del monte. Oltre gli ultimi rami i rumori erano ora più vicini. Capannelli di manifestanti si preparavano più in basso nel bosco, ai lati del sentiero. In piedi in mezzo allo slargo stava una donna bionda, sulla cinquantina con un grosso zaino ed un walkie-talkie tra le mani. Era una donna del luogo e quello era una specie di check-point. “Senza maschera, ragazzi, non riuscite ad andare avanti, sappiatelo” disse. “ Voglio provare comunque, almeno andare a vedere com’è” rispose Mattia. L’adrenalina iniziava a dare forza alle braccia e alle gambe. Ma prima bisognava prepararsi. Il sapore agro dei lacrimogeni stagnava ormai costante nell’aria. Prese dallo zaino la bottiglietta di acqua e limone vi ci inzuppò un fazzoletto rosso che poi legò stretto sul viso appena al di sotto degli occhi. Chiuse la felpa e tirò su il cappuccio. Camminando aveva trovato sul sentiero un guanto da lavoro abbandonato. Lo infilò alla mano destra. “Occhio che arrivano lacrimogeni anche dentro al bosco” diceva qualcuno più avanti. Anche i ragazzi davanti a lui si stavano preparando. Indossato casco e maschera antigas si stavano avviando verso l’ignoto dove gli alberi finivano e iniziava il prato con il cantiere difeso da polizia, finanza e carabinieri. Lì avrebbero affrontato le cariche e i lacrimogeni. Il signore sessantenne vedendoli avviarsi ne fermò uno. “Dove stai andando?” gli chiese. “Andiamo a riprenderci il prato col cantiere”. Qualche secondo in cui i due si fissarono. Il volto sotto la maschera del ragazzo e il viso scoperto con i baffi da montanaro del signore. Lo sguardo severo di una vita di lavoro. ”Ce li hai i guanti?” chiese poi. Il ragazzo stupito scosse la testa. Si aspettava forse di essere ripreso per quello che stava andando a fare. “E allora come pensi di rilanciare indietro i lacrimogeni, testone?” disse l’uomo. Tirò fuori da uno zainetto un paio di guanti da lavoro infilò il sinistro e porse il destro al ragazzo. Si guardarono ancora qualche secondo. “Grazie “ disse il ragazzo sorridendo e tutti e tre si mossero verso la fine del sentiero. Mattia osservò questa scena. Il viso era già coperto. Si chinò e raccolse una pietra. La guardò. Grossa quanto metà della sua mano. Spessa e ruvida sulla pelle, ne misurò il peso tra le dita. Era una bella sensazione. Stringendola guardò verso la fine del bosco. Filtrava la luce ma ancora nulla si riusciva a vedere di cosa c’era al di là. Tra le grida che giungevano di sotto, distinse una voce “Bastardi!”.
Era ora di andare. Calcò i primi passi e stava per raggiungere il piano quando improvvisamente le foglie sopra di lui frusciarono molestate. Alzò la testa per guardare. “Merda!” pensò e vide il lacrimogeno spezzarsi in volo sopra la sua testa. Uno dei pezzi fumanti cadde esattamente in mezzo ai suoi piedi. Rapida una densa nube avvolgeva già tutto il suo corpo. Lo raccolse e lo gettò via ma subito il gas l’aveva penetrato ed attaccava i suoi polmoni. Cercò di respirare ma non ci riuscì, tossì e sputò ma tutto, dal torace in su, bruciava come immerso nell’acido. “Cazzo di gas di merda!” Doveva togliersi di lì. Doveva respirare, stava soffocando. Si girò ma le gambe cedettero. Cadde con la faccia sul terreno. Si rialzò piangendo e sbavando. Cieco, a tastoni riuscì a risalire lontano dal fumo mentre qualcuno lo aiutava a tirarsi su. Si fermò appoggiandosi ad una roccia, spostò il fazzoletto e vomitò tutto quello che aveva nello stomaco.
Il CS non è un lacrimogeno normale. E’ un cazzo di gas stile quelli che usavano nella Prima Guerra Mondiale, le trincee piene di cadaveri ammucchiati. La convenzione internazionale sulle armi chimiche ne vieta l’uso in guerra ma assurdamente le forze dell’ordine possono usarlo nelle manifestazioni per l’ordine pubblico. Un lacrimogeno normale ti irrita gli occhi, la bocca, il viso. E’ più o meno lo stesso effetto di quando si taglia una cipolla ma moltiplicato per cento. In un’altra manifestazione a Torino, anni prima, era stato per decine di minuti in mezzo ad una nebbia di lacrimogeni normali, piangendo come un bambino ma con la forza di resistere e non abbandonare la posizione. Poi era bastato che lanciassero una decina di CS perché il corteo si disperdesse. Il CS è un gas cancerogeno. Un tubetto che, sparato in aria, si spezza in quattro o cinque parti che iniziano ad emettere fumo. Non ti irrita gli occhi e la bocca ma aggredisce direttamente la gola e i polmoni. Ti soffoca. E’ come aver respirato con la faccia dentro una bacinella piena di peperoncino macinato. Ti brucia tutto dentro fino allo stomaco, ti sembra di andare a fuoco e non riesci a prendere il respiro. La salivazione aumenta fino a farti vomitare. La prima sensazione che ti provoca, non facendoti respirare, è quella di panico totale, per qualche attimo ti sembra di morire. Il CS non dovrebbe essere permesso. E’ un arma da guerra. E’ inquinante e pericoloso. Anche per gli stessi poliziotti, nonostante le maschere antigas che usano. Dove si deposita, rimane, anche per anni. L’uso di quel gas in quei boschi era un atto di violenza gratuito verso la montagna.
Appoggiato alla roccia Mattia guardava fisso il terreno. Sopra la radice di un albero un grillo di un verde intenso si contorceva agonizzante. Ucciso dallo stesso gas che lui aveva appena respirato. “Bastardi”. Quante piante, quanti animali sarebbero morti. Quante persone avrebbero avuto in futuro un cancro causato da quella merda. Mattia spostò lo sguardo e vide la pietra che nella foga di prima aveva lasciato cadere a terra. “Bastardi” Si tirò su. Si era ripreso abbastanza. Inondò viso e gola di acqua e limone. Si risistemò il fazzoletto sul viso e raccolse la pietra. Era ora di andare. Da oltre gli alberi, dieci metri più in là, continuavano gli scontri e i lacrimogeni. PIF, PAF, PUF. Ne stavano lanciando a migliaia. Mattia guardò la fine del bosco. “Bastardi”. Strinse forte la pietra. Prese un respiro profondo e si lanciò di corsa oltre agli alberi sparendo nel fumo bianco del prato, nel sole della Val di Susa. Quel giorno non sarebbe successo. .
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Giulia immerse il viso e le braccia sotto il getto della fontana. L’acqua scorreva fredda e piacevole lavando via tutta la merda lasciata dai gas. La percezione di uno sfrigolio sulla pelle. Immerse anche la testa lasciandola refrigerare per qualche secondo. Assieme a lei erano tante le persone che erano tornate su a Ramat dopo essere passate per quel prato infernale. Aveva bisogno di riposarsi qualche minuto, di respirare e prendere aria, pura e pulita anche se quel giorno ormai tutto aveva l’odore e il sapore del lacrimogeno. Lasciò cadere lo zaino e si appoggiò schiena al muro all’ombra della chiesetta. Seduta sull’asfalto sentiva pulsare ogni muscolo del proprio corpo. L’assalto al cantiere continuava ormai da ore. Non si era intravista la più piccola possibilità di riuscire a prenderlo ma non aveva importanza. L’importante era fare sapere che ai loro sgomberi, ai loro atti di violenza, alle loro prepotenze e al loro potere mafioso ci sarebbe sempre stata resistenza. Non sarebbero bastati una rete e duemila poliziotti per distruggere una valle. Vicino a lei ci si nutriva con panini inflacciditi dal caldo, qualcuno rideva, si fumavano le prime sigarette del pomeriggio. Tregua. Almeno per loro, almeno per qualche minuto. Giù in fondo al bosco gli scontri continuavano. Assalti frontali. Giulia si guardò intorno. Pulsante, il cuore di quella resistenza era fatto da una varietà umana stupefacente. Studenti, lavoratori, anziani. Un ragazzo con i dread ed un piercing appena sopra l’occhio accanto ad uno in jeans e maglietta che aveva tutta l’aria di essere un avvocato in borghese. Tanta gente del posto giovani e non. Un padre con due figli, non più di dieci anni ciascuno. Poi tanta solidarietà da Torino, da Genova, da Padova, da Milano, da Roma. Alcuni provenivano anche da oltre confine: Inglesi, Francesi, Tedeschi. Richiamati dal luogo, dal momento di una battaglia contro l’ingiustizia. Siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi ogni ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo: è la qualità più bella di un rivoluzionario. Il comandante argentino creava pensiero ed azione dalle foreste sudamericane fino ai boschi lontani della Val di Susa. Le parlate, i dialetti, le lingue si mescolavano nel colore della terra. In un’unica frase pensata ed agita. Questa volta senza compromessi. Questa volta senza finte sfumature. Da una parte loro. Gli speculatori, i mafiosi, il potere e i suoi servi. Dall’altra noi. La gente comune che trova la forza di sopravvivere e lottare. Un’unica frase pensata ed agita.
Oggi non succederà.
La montagna ci osservava. Impassibile. Umiliata e ferita. Nei suoi silenzi spezzati dal vento. Sperava in noi, il colore della terra.
Oggi non succederà.
Lo sguardo profondo di Giulia si scontrò con l’esile figura di una signora. L’accento torinese gli occhi arrossati dai lacrimogeni, sessant’anni già vissuti e passati da un po’. La maglia bianca No Tav e un cappellino a proteggere la testa dal sole. Sembrava spaesata. Più abituata all’uncinetto che alla montagna. Ma era lì. Con la stessa decisione inflessibile di tutti gli altri. Fragile, un moto d’ammirazione passò nel riflesso degli occhi di Giulia. Un gruppo di giovani, di cui uno teneva in mano un walkie-talkie, si avvicinò con passo affrettato alla chiesetta. “Ragazzi, ci dicono che la polizia sta arrivando in forze qui a Ramat. E’ meglio andare via e scendere giù a Chiomonte” disse uno di loro. Una lama di gelo trafisse gli stomaci di tutti quanti. “ E i compagni che sono ancora giù nel prato e nel bosco?” chiese Giulia “Quelli se la caveranno. Ci sono diversi sentieri che aggirano il paese ed è probabile che gli sbirri non se la sentano di entrare fin dentro al bosco.” Rispose il ragazzo. “ Ora però dobbiamo muoverci. Noi prendiamo la strada normale ma per chi vuole lì c’è un sentiero che passa sotto l’autostrada e arriva giù dalla centrale elettrica. Il corteo dei sindaci sta lottando per riconquistarla. Chi vuole può andare a dare una mano”.
La centrale elettrica era quella che forniva energia al cantiere. In mattinata il corteo a cui partecipavano anche i sindaci e le istituzioni della Valle l’aveva occupata a sorpresa, poi era stato quasi subito respinto dalla polizia e ora lottava per riconquistarla. Insieme ad una altro centinaio di persone Giulia iniziò a scendere per il sentiero. Quella giornata non era ancora finita. La decisione era presa. L’elicottero a ronzava basso sopra di loro. Gli alberi non erano abbastanza fitti da coprirli tutti. Ad un bivio incerto un’apparizione. Come un personaggio mistico residuo di un passato secolare, una vecchia contadina. China su se stessa camminava in salita, un’enorme balla di fieno sulla schiena. Li vide, si fermò e con il dito indice indicò la giusta via. Senza dire una parola. Senza che le fosse stata rivolta alcuna domanda. Tra le incisioni di rughe indelebili sul viso li guardò passare tutti ad uno ad uno e poi continuò il suo duro, antico lavoro. Il sentiero si faceva sempre più ripido e pendente e la testa del lungo bruco di manifestanti procedeva a rilento causando ingorghi nelle retrovie. Sotto di loro l’autostrada. Un orrendo viadotto in cemento che squarciava la valle per chilometri e chilometri. Grigio si innalzava dal fondo per almeno cinquanta metri. Il sentiero sembrava puntare dritto su quell’asfalto. Quel giorno l’autostrada era stata chiusa e sul viadotto stazionavano alcune macchine della polizia. Gli sbirri arsi dal sole avevano alzato gli occhi e si erano accorti del gruppo che lentamente scalava in discesa. Gesticolavano tra loro ed iniziavano ad agitarsi. Ci sarà comunque un bel po’ di distanza tra il sentiero e l’autostrada pensò Giulia. Ma più scendevano più il sentiero sembrava proprio puntare su quelle quattro corsie. Non è proprio una bella situazione. Se quelli decidono di bersagliarci noi siamo tra la roccia e una scarpata tutti in fila senza poter nasconderci o scappare. Il ragazzo davanti a lei scivolò su una pietra e si arrabattò pesantemente nella polvere. Giulia lo aiutò a rialzarsi e lo superò. Cercava di raggiungere chi era alla testa del gruppo. I poliziotti si facevano sempre più grandi e vicini. Nel punto dove il sentiero avrebbe incrociato l’autostrada stavano arrivando altre divise. Giulia accelerò. Passò avanti ad una ventina di persone incespicanti e poco prima di raggiungere la testa del bruco la vide. Cazzo. Ecco perché non riusciamo a muoverci. La signora sessantenne torinese. La testa del bruco era lei. Camminava intontita dal sole guardandosi attorno come se si trovasse al parco e cercasse dei piccioni a cui gettare il suo sacchetto di briciole di pane. Giulia le si mise in coda e la pressò da dietro. La signora la vide si girò e le sorrise. “Scusi sa se vado un po’ lenta. Ma inizio ad avere una certa età e questo sentiero…” Ma perché cazzo non hai preso l’altra strada che era più semplice? “Si figuri signora è giusto che ognuno vada col proprio passo e che ci si aspetti a vicenda…” Camminavano. Ora erano esattamente all’altezza del viadotto. Distavano in linea d’aria non più di quindici metri dal parapetto. Due poliziotti erano affacciati e li indicavano schernendoli, uno più indietro stava facendo segno di avvicinarsi in fretta a due camionette poco lontane. Spera che non abbiano i fucili per i lacrimogeni! In fondo sul viadotto non c’erano scontri ed era possibile che non li avessero in dotazione. “Merde!” gridò qualcuno più in alto sul sentiero. Ottimo, visto che siamo in questa posizione di estremo vantaggio strategico provochiamoli pure. Giulia immaginò la vista dei poliziotti dal parapetto. Non vedevano persone ma una serie di paperelle da tiro a segno tipo lunapark. Prega non abbiano il lacrimogeni! La signora avanzava piano, attenta, rallentando tutta la lunga fila indietro. Dai specie di fossile muoviti! Le camionette inchiodarono stridendo e una ventina di sbirri scesero di corsa. La signora vide un grosso fiore viola a lato del sentiero e si fermò ad accarezzarlo. Allargò un immenso sorriso a Giulia “ Questo è un fiore molto raro, ha visto che bello? Cresce solo qui” Ma sei scema? Muoviti o giuro che provoco a morsi l’estinzione della specie! “E’ bellissimo signora… però forse dovremmo affrettarci che lassù iniziano ad agitarsi un tantino” La signora guardò in alto il viadotto su cui ora i poliziotti affacciati erano una decina e un lampo di timore le passò sul viso. La sua andatura cambiò improvvisa e divenne una gazzella incontrollabile. Camminava guardandosi i piedi e scendeva giù ad una velocità a cui tutti facevano fatica a stare dietro. Ma allora facevi finta! Stavano pian piano distanziando la zona più pericolosa. “correte che ora vi prendiamo a sassate!” gridarono dall’autostrada. Bene vuol dire che lacrimogeni non ne avete e pietre li sopra non credo ce ne siano troppe. Capeggiati dall’insospettabile agilità della signora, in pochi minuti tutti raggiunsero la strada di fondo valle. Ora più o meno erano al sicuro. “Complimenti signora è un’ottima camminatrice” disse Giulia per confortare l’anziana che sudava e ansimava. “Sa, quelli lassù proprio non mi piacevano!” rispose.
Da dietro una curva in fondo alla strada decine di persone risalivano di corsa, tossendo e sputando intossicate dai gas. Forte arrivò il clangore di una barricata sfondata da una ruspa. Giù alla centrale la situazione doveva essere tosta. Ora qualcuno si avviava in su verso Chiomonte, verso la stazione. Giulia slacciò il casco appeso allo zaino e lo indossò. Fece un segno di saluto all’anziana torinese. Era giunto il momento di dare una mano ai sindaci della Val di Susa. Tranquilla, senza fretta, si incamminò verso i fumi che piano salivano dal basso. Quella giornata non era ancora finita. Scappare andando via. Quel giorno non sarebbe successo. .
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Lucio scagliò la pietra con tutta la forza che aveva in corpo ma rimase un secondo di troppo a guardarla colpire. Gli bastò una frazione infinitesimale per capirlo. La maschera sovraccarica non funzionava più . Il panico gli spalancò gli occhi in un espressione di terrore mentre i polmoni incandescenti si liquefecero ricompattandosi subito con la densità della gomma. Peccato. Era stato un lancio tecnicamente perfetto. Uno di quei lanci che se il fotografo ha l’abilità di cogliere al culmine, poi la foto diventa un simbolo. Si vedeva già sulla prima pagina di Repubblica e magari stampato anche su qualche maglietta. La pietra era poco più piccola della sua mano. Il braccio si era inarcato caricandosi lento all’indietro e quando la resistenza elastica era stata al limite il corpo era scattato potente come una molla e le dita avevano rilasciato la pietra al momento giusto. Con una parabola perfetta di quarantacinque gradi e una velocità di impatto di 50 chilometri orari. Peccato. Quella era una pietra che faceva male. Lucio vide il minerale roteare maestoso nell’aria, tagliare come una lama la densa cortina di fumo bianco, uscirne al vertice brillando al sole, rientrare abbassandosi nella nebbia e schiantarsi fragorosamente al centro del casco dello sbirro in seconda fila. STOK! Un Lancio perfetto. E il casco sparì dalla seconda fila. Se ci fosse stata una giuria sarebbero stati tre dieci e due nove e Lucio sarebbe stato soprannominato la Nadia Comaneci della categoria rivolta extraurbana sopra gli ottocento metri di quota. Ma a quel punto era passato un secondo di troppo. La polizia stava caricando e gli sbirri erano davvero tanti. Centinaia. Lucio si voltò per scappare ma le gambe non risposero. Il CS gli era penetrato dai polmoni fin dentro i muscoli dei piedi. Il busto si girò di slancio ma le suole rimasero immobili attaccate al prato. Lucio andò giù. Sospeso nella caduta sentì fresco l’odore dell’erba verde su cui stava per accasciarsi. Immaginazione. L’unico gusto vero era quello del lacrimogeno. Con la coda del’occhio vide la massa scura dei poliziotti pericolosamente troppo vicina. Venti metri al massimo. Era passato un secondo di troppo. Poi la sua faccia esplose nella terra umida del prato. Sentì un filo d’erba sfilettargli una guancia e il casco impattare duro contro un masso. Se quello fosse stato un film degli anni cinquanta ora la sua battuta sarebbe stata”oh no, sono perduto!” Ma quello non era un film e Lucio sapeva quello che lo aspettava se l’avessero preso. Calci in faccia e nei testicoli, sprangate sulla testa, sputi, insulti, umiliazione, dolore, ossa rotte e tanta paura. Si vedeva già qualche giorno dopo nel grigio di un ospedale con un filo di voce a raccontare le torture subite. Cercò un respiro per la forza di rialzarsi ma i polmoni non rispondevano. Si erano incollati alla pelle della cassa toracica e l’aria non penetrava. Panico. Li vedeva. Lo stavano puntando. Sembravano non avere corpo sotto quelle maschere e quelle divise. Macchine umanoidi assassine uscite da chissà quale racconto di fantascienza. Immaginava dietro i filtri sul viso i loro ghigni canini, la schiuma rabbiosa sui loro denti gialli. Erano a neanche dieci metri. Non aveva scampo. Si strappò la mascherina dal viso e con gesto inutile la scagliò verso di loro. Con un ultimo sforzo piantò le dita nel prato e provò ad alzarsi cadendo in ginocchio. Muco e saliva ovunque sul viso, gli occhi non vedevano più, strizzati a spremere via l’acido del gas. Unghie e ginocchia lo portarono futili decimetri più avanti. Reazioni anaerobiche avvenivano dentro il suo corpo. In bocca sentiva il sapore della terra. Il gusto acre ed intenso. I granuli e i sassolini, il calore di ciò che aveva partorito tutti gli esseri viventi e che presto se li sarebbe ripresi. Assaporò in un attimo milioni di anni di esistenza, assaporò ciò che presto sarebbero tornati ad essere tutti , lui come gli sbirri che lo stavano per massacrare. Assaporò la terra e in quei succhi percepì la paura. Gli erano quasi addosso. Attutito dalla maschera udì chiaramente l’urlo robotico di uno di loro ”Merda! Ammazziamolo!” Si buttò a terra e si rannicchiò in posizione di difesa, pronto a farsi spaccare le costole. Oggi è un bel giorno per morire avrebbe detto se fosse stato Clint Eastwood. Ma non era Clint Eastwood, era Lucio e l’espressione che passò veloce per la sua mente fu una specie di crasi suina di dio.
Poi il tempo si fermò. Lucio aprì gli occhi. Tutto rimase immobilizzato in un attimo. Lo sbirro a un passo da lui contorto con il manganello alzato, caricato pronto ad essere schiantato sulla sua spalla. Altri dieci poliziotti dietro, obliqui nello slancio di raggiungerlo. Una lacrima ghiacciata sulla sua guancia. Il gas rarefatto bianco e fumoso nell’aria. L’erba immobile piegata dal vento. Poi Lucio lo vide. Sospeso nel cielo un metro sopra la sua testa. Un masso grosso quanto un melone. Nero come la pece. Era successo qualcosa. Per gli sbirri era passato un secondo di troppo.
Il tempo si sbloccò. Il masso colpì in pieno il centro dello scudo del poliziotto col manganello alzato. Colto di sorpresa barcollò e cadde facendo incespicare sul suo corpo i due subito dietro di lui. Gli altri si fermarono accorgendosi che qualcosa non andava. Poi i sassi arrivarono tutti. I compagni erano davvero tanti. Migliaia. Gli sbirri concentrandosi su Lucio caduto avevano lasciato scappare tutti non sapendo che i compagni sono come i Marines. Non lasciano indietro nessuno. La pioggia di pietre arrivava anche dal bosco. Saranno state centinaia, ininterrotte tutte a segno. I caschi blu riformarono la testuggine e sotto i colpi incessanti iniziarono a indietreggiare. Quando furono abbastanza lontani qualcuno aiutò Lucio a rialzarsi e lo accompagnò dentro al bosco. Con l’ossigeno sprigionato dagli alberi amici, i polmoni tornarono a far passare un filo d’aria. Lucio si sedette su una roccia e finalmente poté vomitare. Quando rialzò la testa con la bocca gocciolante di succhi gastrici, un ragazzo gli diede una pacca sulla spalla “Comunque … che lancio, compagno! Da manuale!” Lucio sorrise. Se l’era vista davvero brutta. Stavano per prenderlo. Ma Lucio lo sapeva. Quel giorno no.
Quel giorno non sarebbe successo. .
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Ci sono giorni in cui il potere tenta degli atti di forza. In quei giorni il potere mostra la sua vera essenza inumana e violenta. Scatena i suoi cani armandoli in assetto da guerra e li manda contro la popolazione civile. Opporsi è stancante e pericoloso. Ci si lascia spogliare delle proprie terre, dei propri diritti, del proprio lavoro, della propria cultura, del proprio mondo. Si scappa impauriti. Ma nello sferragliare del treno che tornava verso Genova, nella rossa luce del tramonto riflessa sui visi affumicati, i compagni avevano una consapevolezza dentro i cuori, dentro le menti. Dentro gli occhi che brillavano di mille immagini di lotta. Pietre in mano, in Val Susa, quel giorno non era successo. Ovunque, da quel giorno in poi non sarebbe più successo. Mai.

Jackob

Maggio 2010

Jackob affondò con il piede la zappa nella terra umida. Il suo corpo era possente anche se piccolo e deforme. Estrasse la zappa e la ripiantò poco più avanti. La terra era vaporosa, si lasciava violentare dal becco di metallo e odorava. La terra era una buona cosa, non parlava, non diceva nulla, non si muoveva. Ma era sempre lì. Sotto i suoi piedi nudi a infiltrarsi fredda e bagnata tra le dita e nei vestiti. La terra gli voleva bene e lui voleva bene alla terra. Non c’era uomo che la curasse come Jackob e non c’era uomo oltre a Jackob a cui la terra ripagasse tanto. Jackob lo sapeva, tutti lo sapevano e forse solo per questo era ancora vivo. Sotto un cielo uggioso Jackob la colpì di nuovo. Ma il suo era un gesto d’amore. Quando la zappa penetrava nel suolo tenero e marrone spargendo granuli e polvere, Jackob sapeva di non stare facendo male alla terra. Sapeva che quel gesto era come una carezza. Come una mano maliziosa che si infilava lenta tra le gambe di una donna. Se si conoscevano i punti giusti dove affondare, la forza giusta necessaria, la lunghezza della zappata..la terra fremeva di piacere. Jackob amava la terra. Ogni tanto quando credeva di non essere visto allungava la sua mano tozza e digrignata al suolo e se ne portava una manciata alla bocca. Ne assaporava il gusto acre ed intenso. I granuli e i sassolini, il calore di ciò che aveva partorito tutti gli esseri viventi e che presto se li sarebbe ripresi. Assaporava milioni di anni di esistenza, assaporava ciò che presto sarebbe tornato ad essere lui stesso. Assaporava la terra, gustava la vita, percepiva la morte. Dolce acre e amara, la scioglieva e se la lasciava scivolare piano lungo la gola. “Porco di un mostro!” La bastonata gli arrivò secca con un dolore acuto sulla nuca. “Stai di nuovo mangiando la terra eh animale!?” Jackob si allungò sul campo buttato come fosse un sacco di patate, la bocca congestionata penetrata nel silenzio di un grugnito. La seconda bastonata lo colpì pesante come il ferro sulla sua schiena storta. La gobba gli dolse come se fosse stata in fiamme. “Bestia schifosa! La terra non si mangia! La terra si lavora” Ancora un colpo con odio sulla tempia. Jackob sapeva che sarebbe stato l’ultimo. Erano sempre tre le bastonate del padrone. Una goccia di sangue scivolò lenta sulle irregolarità del cranio. ”Vile creatura! Io per la pietà misericordiosa del Signore iddio ti tengo in vita, ti do da mangiare…e tu invece di ripagarmi col lavoro cosa fai? cose disgustose! Guardalo lì! imbambolato con quel volto deforme. Togli quel moncherino di mano dalla tua bocca schifosa! Sputa quella terra!” L’unico occhio buono di Jackob silenziosamente si riempiva di lacrime. Arrivò il calcio al costato. “ Alzati mostro! Prendi l zappa e lavora! Ti piace mangiare la terra? Allora stasera per cena avrai la terra più fertile di tutta la campagna. Il letame sarà la tua cena mostro!Lavora!” Il padrone non era buono. La terra, sì lei era buona. E mentre ancora il padrone zoppicando lento sul suo bastone si avviava verso la cascina, Jackob smise di zappare. Allungo una mano verso il terreno e si riempi la bocca. Jackob amava la terra. .
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Quando la notte scendeva su quelle colline nulla esisteva più. Era come se gli oggetti, le persone, il profilo dei monti, gli alberi sparissero. Vaghe forme si distinguevano solo ai fiochi bagliori delle lampade ad olio e delle candele. Era il buio assoluto. La luna spesso un miraggio sotto un cielo nero di nuvole. Jackob era accovacciato nel suo angolo di paglia. Ogni giorno appena la luce del sole si spegneva nel crepuscolo, il padrone lo faceva chiudere a chiave nella stalla. Nell’inconscio dell’oscurità le protuberanze del corpo di Jackob, il suo cranio schiacciato e deforme, infastidivano gli altri uomini. Incontrare quell’essere dietro al buio di un angolo, scorgere la sua sagoma che nel crepuscolo si aggirava tra le ombre scure dei campi, sentire i suoi passi strascicati nell’oscurità del bosco erano sensazioni che insinuavano l’inquietudine dell’orrore nelle menti dei contadini. La notte conferiva a Jackob il potere inconsapevole della paura. Chi più temeva di incontrare il respiro ansante di Jackob nelle tenebre dei corridoi deserti della cascina era il padrone. Al calar della notte uno stato d’angoscia impalpabile si insinuava dentro il suo vecchio fegato. Il padrone temeva i fantasmi della notte e Jackob ne rappresentava la peggiore incarnazione. Così ogni sera si assicurava personalmente che la porta della stalla fosse chiusa con tre mandate e legava il mazzo di grosse chiavi arrugginite ai propri pantaloni. Jackob passava le nottate sulla paglia in compagnia delle mucche. In fondo non era una brutta compagnia. Il calore dei grossi corpi riscaldava piacevolmente lo stanzone di legno e pietra. E le bestie non erano cattive come gli uomini. Col tempo aveva imparato a tenersi lontano dagli escrementi degli animali e l’odore non gli dava fastidio. Era odore pulsante di vita. Jackob aveva fame. Il suo solito pasto consisteva nell’avanzo del pasto dei padroni buttato su un piatto più qualche pezzo di pane secco. Ma quella sera alla luce giallastra della lampada a petrolio nel piatto si poteva vedere solo una grossa e fresca merda di cavallo. Come promesso dal padrone. Jackob la fissava affascinato. Lo sterco non era una cosa cattiva. Marrone chiaro una grossa spirale maestosa e molliccia sulla ceramica bianca. C’era davvero qualcosa di bello in quella cacca enorme amica della terra , amica delle piante e dei fiori. Amica delle mosche con cui Jackob spesso giocava. Lo sterco non era una cosa cattiva ma Jackob aveva fame. Da un involto di stracci nascosto sotto una pietra smossa del muro tirò fuori due pezzi di pane secco ed iniziò a masticarli ruminando nella bocca amorfa. Quando poteva ogni tanto racimolava degli scarti di cibo qua e là. Ma il pane durò pochissimo. La giornata di lavoro era stata dura e il corpo era ancora indolenzito dalle bastonate. Jackob si passo la mano tozza con quattro dita accarezzandosi il taglio sulla nuca. Appoggiò la sporgenza del suo cranio contro una fredda pietra della parete .La sensazione era bella. Jackob era l’unico uomo a riuscire a sentire l’odore della roccia. Era necessario stare fermi, immobili e lasciarsi penetrare dalla pietra. Era un odore fievole ma intenso. Si insinuava piano nelle narici. Era un odore diverso da ogni altro. Salmastro ma profondo. Refrattario, fatto di mille crepe e insenature, levigature, spacchi, screpolature. In questo odore duro e strano il sonno nonostante i crampi allo stomaco piano perveniva. Quando, tra un muggito lento, Jackob sentì girare lentamente la serratura. Il cigolio stridente. Una, due , tre volte. Si coprì impaurito il viso. Basta bastonate. La porta si aprì lasciando apparire le forme rotonde di una figura senza candela. Mormorava tra sé e sé e teneva in mano qualcosa. “O madre santissima perdona tutti i nostri peccati perchè siamo tutti dei grandissimi peccatori...” Diceva sommessamente la figura. Nella penombra la serva negra si diresse a passi lenti e sicuri verso Jackob. Il piccolo uomo deforme si era rannicchiato nel suo angolo. La serva portava un piatto con degli avanzi di cibo. Alla luce giallastra della lampada le sue grosse forme apparivano accoglienti, rassicuranti sotto un viso sorridente e cordiale. “..o signora dei cieli le nostre anime danneranno tra i fuochi infernali se tu non perdoni le nostre colpe..ce le perdoni ?” diceva sommessamente come rivolta alla parete. Appoggiò il piatto vicino ai piedi di Jackob. Questo smise di schermirsi la faccia con il braccio. Con un’espressione di disgusto la serva negra raccolse il piatto di sterco. Guardò Jackob senza ostilità e disse “Mangia, uomo…Che siamo pure tutte creature di Dio no?” Lo disse a bassa voce. Jackob non sapeva se erano tutti creature di Dio ma immerse le mani nel piatto ed iniziò a mangiare con foga. La serva negra si avviò verso l’uscio tra gli animali addormentati. Fuori soffiava il freddo vento della notte. “O stimabile concubina di Dio lava le nostre anime dalle macchie del male perché tutti noi peccatori ne siamo pieni e sono le più ostinate da mandare via..” Sussurrava chiudendo la porta di legno. Un giro di chiave, due giri, tre giri. Come si fosse procurata quella chiave nessuno può saperlo. Il padrone era convinto di avere l’unica copia. Jackob posò il piatto vuoto sul terreno. Spense la lampada con un respiro rauco e si adagiò sulla paglia. Nessuno lo aveva mai chiamato così. Chiuse l’occhio buono nel rumore del vento. Uomo.

Genova

Luglio 2009 Tramontana sotto un cielo plumbeo. Genova. L’odore del mare. L’odore putrido di fogna alla foce dei fiumi. Gabbiani volano tetri nel cielo della città. Si nutrono di spazzatura e con i loro becchi nella carne viva dei piccioni. Rantolanti sanguinano spolpati vivi. Genova è di una bellezza senza pari. L’odore di piscio ti assale nei vicoli bui. Ci sei nato in questi vicoli, ci sei cresciuto, eppure potresti ancora perdertici. Tra i negozi, gli spacciatori e le puttane, imboccando il caruggio sbagliato. Genova pulsa di vita. Di una vita sporca, reale e sofferta. Il porto, le grandi fabbriche. Il lavoro qui piano sta morendo. Sorgono vetrine, lucidi centri commerciali. Vuoti. Si smantellano le grandi macchine che producevano. Parte della vita di tanti operai. Piena. Genova ti usa. Ti prende, ti affascina , ti sfianca, ti alcolizza e poi ti lascia morire. Spesso da solo, in una stanza buia. Una bottiglia di grappa appoggiata al comodino... e in lontananza il rumore del mare. .
(concorso campercitytelling, una città in 800 battute).

Una tenda, una spiaggia, un bagno all'alba

Giugno 2009
Una spiaggia, una tenda. La sabbia che piano si svuota, il mondo che diventa nostro. Nessuno. Solo una croce di pietra che guarda il mare e il mare che guarda noi. Ci protegge su quelle pietre da cui dominiamo l’esistente. Uniti in un solo corpo bellissimo ed unico. Io e te, te ed io, il mare gli scogli, la vita dentro un attimo. Arancione vivo, avorio e marmo, castano ebano contro il blu profondo del mare. Contro il grigio chiaro della roccia che ci accoglie, contro il verde degli arbusti che respirano insieme a noi. Un attimo. Una sensazione tremante attraverso l’iride dentro i nostri corpi. Dentro il nostro corpo. Solo, tra pietra, acqua e piante. Nel silenzio delle onde che si infrangono in fondo, sotto di noi. . .
Il silenzio dei pescatori che immergono lenza in un bisbiglio di voci profonde. Il silenzio del fumo, dell’odore di carne che si sparge nell’aria. Il silenzio dello sciabordio dell’acqua, il silenzio dei tuoi occhi. Il silenzio del tuo sorriso. Il suono del silenzio della natura. Aria sempre più fresca, sabbia fredda sotto gli asciugamani umidi. Asimov ci racconta leggende dentro un cielo stellato e i bagliori gialli degli ami nell’acqua scandiscono ore che volano in minuti. Minuti che restano fermi nell’eternità dei nostri corpi accoccolati senza tempo. Tra le rocce il sonno placido di una tenda calda di umanità. Solo poche voci che svaniscono nel buio. Solo il pluf del mare notturno. Una luna che veglia sull’oceano e ci accarezza facendoci sognare. Sogni dolci e reali. Di una spiaggia deserta, di una tenda. Di due corpi abbracciati caldi l’uno per l’altro.
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Arancione vivo. . Poi nasce un raggio di sole, si sveglia. Parte dal magma fuso della vita ed illumina lo spazio. Veloce attraversa istantaneamente centinaia di migliaia di chilometri di freddo, buio niente. Sa che ha una missione e la porterà a termine. Arancione vivo. Raggiunge l’orizzonte, sfiora la superficie dell’acqua, passa attraverso trilioni di molecole d’aria, entra tra le rocce in una spiaggia addormentata e colpisce il tuo viso. Ed è come se l’universo fosse stato creato per noi. Rosa. Il tuo viso. I tuoi capelli. Il cielo incendiato dal sole nascente. Il mare argenteo. E tutto porta scritto due nomi. Incisi indelebilmente nell’essenza dell’essere. Ombre solide che si muovono nella parvenza delle cose. Il grido di un nuovo giorno che nasce. Luce che viene alla luce. Una petroliera che scorre in lontananza. Un gabbiano che spruzza cromato il mare. Rosa. Ebano. I tuoi occhi. Il tuo sorriso. Marmo. Il tuo corpo. La tua forza. Il giorno che nasce per te. L’aria che si colora per te. Un brivido di piacere del mare tiepido. Sogna di toccare il tuo corpo nudo. Sogna di poterti avere sempre con sé. Anche il mare è piegato alle leggi dell’esistenza. Anche il mare è piegato a noi due. Vita. Una tenda, una spiaggia, un bagno all’alba. I tuoi seni che mi sfiorano. La certezza di non voler essere che con te. Una tenda, una spiaggia, un bagno all’alba.
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Il nostro intenso silenzio.

Marco e la crisi

Maggio 2009

Quel giorno Marco si svegliò tutto eccitato. Non capiva il perché ma sapeva che sarebbe stata una grande giornata. Scese dal letto si mise le pantofoline e andò in cucina a fare colazione. “Marco è tardi! Oggi cè la Crisi!” disse sua mamma. “La crisi! Giusto!” Ecco cos’era che rendeva speciale quella giornata! “ Mamma scusa me n’ero dimenticato!” disse Marco da bravo bambino. “Dai non importa, ora vestiti in fretta e fila a scuola!” disse la madre comprensiva. “ …e pettinati bene che non voglio fare brutte figure!” Aggiunse mentre Marco stava già uscendo di casa. “Urrà!” pensò Marco per strada “ Oggi è il giorno della Crisi!”. Erano mesi che tutti ne parlavano e tutti l’aspettavano. Fuori dalla scuola incontrò i suoi compagni di classe tutti esaltati. “Mio nonno dice che nel ‘29 c’è già stata una Crisi ed è stato bellissimo.” diceva Michele il sapientone. “ Seeee. E ora gli asini volano! Tuo nonno è un rincoglionito!” gli aveva risposto Massimino mentre salivano le scale. Crisi qua, Crisi là e poi tutti si sedettero ai banchi perché era arrivata la maestra. “Bambini!” disse appoggiando frettolosamente i libri sulla cattedra “Come sapete oggi è il giorno della Grande Crisi. Per cui vi voglio tutti in ordine e ben educati. Soprattutto te Pasquale che stai in ultimo banco e vieni da quel quartieraccio! Mi raccomando, ora mentre leggete i primi due capitoli del libro venite uno ad uno a farmi vedere le unghie. Poi tutti insieme aspetteremo la Grande Crisi!”concluse con la voce rotta dall’emozione. Marco si mise a leggere e fece vedere le unghiette pulite alla maestra. Era tutto eccitato. Ma proprio dieci minuti prima fatidico momento le prugne secche che aveva mangiato di nascosto la sera prima iniziarono a fare effetto. Tentò di resistere..ma quando scappa, scappa! “ Bene bambini! Ora chiudete tutti i libri e aspettiamo insieme gli ultimi minuti prima dell’agognato arrivo della Grande Crisi!” disse la maestra con una luce sognante negli occhi. “Maestra. Maestra!!” gridò Marco alzando la manina e tenendosi la pancia. “ Dimmi Marco, cosa c’è!?” La maestra guardava preoccupata quel bel bambino dai capelli biondi. “ Maestra, io devo proprio andare in bagno!” “ Ma! Marco! Non puoi proprio aspettare? Mancano cinque minuti all’arrivo della Grande Crisi! Guarda che non è una cosa che succede tutti i giorni!” “Lo so maestra, ma io devo proprio andare! Faccio in frettissima!” disse Marco con la pancia che ribolliva. “ …e va bene..vai! ma sbrigati!” Marco usci dall’aula tutto agitato. Andò di corsa nel bagno che era proprio di fronte alla classe e si sedette  veloce sul water. Cavolo! Mi scappa tantissimo ma non mi viene! Dal bagno Marco sentì la voce ovattata della maestra che diceva “ Bene bambini! Ora che mancano pochi minuti alla Grande Crisi intoneremo un canto e poi gli ultimi 10 secondi faremo il conto alla rovescia per augurare il benvenuto alla nostra Grande Crisi!” “Dai esci esci esci!” pensava Marco spingendo a più non posso.  La pancia  gli sembrava trafitta da una spada. “La Grande Crisiiiii Sta arrivandooo. Oh Grande Crisiiii vieni per noiiiiii!” Cantavano la maestra e i bambini mentre Marco tutto sudato cercava di liberarsi del suo peso interiore. “..sta arrivandooo! Oh Grande Crisi vieni per noiiiii! Ci siamo bambini! Tutti insieme! DIECI! NOVE! OTTO!” “Nooo, nooo!” pensava Marco e iniziò a spingere con tutte le forze che aveva in corpo. Spinse come se da quello dipendesse tutta la sua vita! “Esci, esciiii!!!” pensava “ QUATTRO! TRE! DUE!” Spinse ancora più forte “Esci!!” Poi d'improvviso sentì qualcosa. Come una bomba nel suo intestino. “UNO!” Per Marco fu un’esplosione liquida e rumorosa. “ZERO!" Un getto caldo e continuo iniziò a svuotarlo "CRISI!!! Sìììì GRANDE CRISI!!!” Gridavano la maestra e i bambini. E Marco, esaurito il flusso cominciò a sentire un odore insopportabile. “CRISIII! GRANDE CRISI Sììììì!” Marco si accasciò sfinito sul water. Mai avrebbe fatto un altro sforzo così nella vita. Ma tutto era stato inutile. “CRISIIII!!!” gridavano i bambini. “GRANDE CRISIIIII!” gridava la maestra.

Fu così che all’arrivo della Grande Crisi del 2009 Marco si ritrovò nella merda

La Crisi

Maggio 2009
L‘uomo camminava sul bordo della diga come aveva fatto mille altre volte. Una lieve brezza increspava l’acqua sotto un cielo livido. L’uomo si fermò un momento ad osservare il lago. Tutta quell’acqua. Nera di un nero impenetrabile. Lo sguardo dentro quelle profondità infinite. Per un attimo immaginò di tuffarsi. Un abisso senza tempo né luce dove l’uomo si perde vagando nel buio. Sopra di lui sa esserci il cielo, forse un cielo stellato, ma l’uomo una volta tuffatosi sa che quel cielo non lo vedrà mai più. Affonda piano assorbito dal ventre oscuro del lago.
A questi pensieri un brivido passò per la schiena dell’uomo che guardava il lago. Se la diga avesse dovuto cedere sarebbe stato un disastro. Tutta quell’acqua. Tutto quel buio. E sotto la diga tutto il suo mondo, tutto l’esistente. L’uomo riprese la sua passeggiata. Ma non succederà mai, pensò l’uomo. La diga è costruita con il miglior cemento armato, con le tecniche più innovative e sicure. Il suo spessore è troppo grande. La diga non cederà mai. L’uomo passeggiava sul cemento e si perdeva nei suoi pensieri sotto quel cielo livido di pioggia. Spirava una brezza leggera. CRACK!”Oh mio dio scappate!” L’uomo si trovò per terra, la terra aveva tremato. Una sirena si accese di una luce rossa abbagliante ed iniziò il suo lungo ed assordante lamento. “Scappate! Scappate! Si è aperta una falla!” La gente intorno a lui correva come impazzita in ogni direzione. Il cemento sotto i suoi piedi ora tremava costantemente. “Scappate!” La luce rossa.”Scappate!” L’uomo guardava la superficie nera del lago che ora ribolliva e ondeggiava. “Scappate moriremo tutti!” La sirena urlava. L’uomo si sdraiò per terra e guardò il cielo. Le nuvole erano scure e gonfie. Presto pioverà pensò. L’uomo chiuse gli occhi e respirò, aspettando le prime gocce che sarebbero venute a bagnarlo.

L'Onda del desiderio

Ottobre 2008
I suoi occhi guardano verso il futuro. E’ uno studente. Ha diciassette anni, una maglia di un gruppo ultras e balla al concerto degli Statuto e suoi occhi guardano verso il futuro. L’onda cresce. Vive in un mondo di merda, dove le scuole crollano a pezzi e schiacciano gli studenti, dove la vita non ha prospettive mai certe, dove un cialtrone come Berlusconi è al governo e logora l’anima del paese. Eppure balla e i suoi occhi guardano verso il futuro.
Cosa passa intenso in quelle pupille dentro fino all’iride. E’ l’onda che passa. Sono le università occupate,i megafoni, i cortei oceanici, le cariche della polizia, la resistenza, le mille frasi sugli striscioni, il calore dei corpi.
L’onda cresce.
Giorno dopo giorno si alza , si impone, si fa impetuosa, urla e biancheggia. L’onda fa tremare il terreno sotto i piedi di chi si illude di essere al sicuro di chi crede che non si bagnerà mai , di tutti quelli che si riparano dietro ai muri dell’indifferenza per evitare anche i più piccoli schizzi. L’onda li travolgerà.
L’onda cresce.
Cresce gli spiriti, cresce la voglia di fare, cresce le generazioni. Chi oggi non c’è domani ricorderà. Di quando qualcuno provò a cambiare lo stato di cose presenti, di quando il movimento degli studenti si incazzò e l’uomo riprese in mano la propria esistenza. Chi oggi non c’è domani ci sarà. L’onda cresce.
Cresce le immagini,cresce gli immaginari, cresce le suggestioni. Il suono di milioni di voci svegliatesi dal letargo che si incrociano in infinite idee per ridare forma ad un mondo che non ci appartiene più. Un mondo che cambieremo. Scolpendolo attraverso la mano del desiderio.
Il desiderio. Giovanni balla e nei suoi occhi si vede il futuro. Perché quando l’onda si infrangerà contro gli scogli un’altra ne arriverà subito dopo e lui sarà lì. In prima linea con un pugno stretto al cielo e la rabbia nel cuore. Il nostro desiderio si espanderà contaminando tutto ciò con cui verrà a contatto. L’arma dei nostri sogni prenderà il sopravvento. L’onda vi travolgerà. Non scappate. Lasciatevi trasportare. Non c’è altra soluzione..

Nocciola sangue

Ottobre 2008
“Soltanto sei parole”.
Un corteo come quello non si vedeva da quasi dieci anni a Genova. La città sopita, la tramontana tornava in un giorno, in un’onda. Soltanto sei parole, uno striscione. Noi la crisi non la paghiamo. L’aria quel giorno aveva un sapore particolare. Di quando il freddo si fa più intenso e i tramonti diventano più rosa. Si mischiava la polvere del passato, del 30 giugno sessanta, dei giorni del G8 con quella dei passi dei trentamila studenti che sfilavano per le vie del centro.
Perché c’è anche chi può dire di no ma è tutta una stessa storia. L’aria quel giorno sfiorava appena i polmoni e gli spiriti si sentivano liberi. Trentamila. Tutti insieme. Liberi.. E lei davanti. Scorrendo dal fondo questa fiumana umana come se avessimo potuto volare..tra i capelli e i cappelli gli striscioni e i megafoni, le mille voci che si alzano insieme, i balli, i baci, i rumori dei passi, i battiti dei cuori... Lei davanti. In cima a tutto, di fronte ad uno striscione con appena sei parole.
Uno spirito libero.
Irene guidava il corteo e i suoi occhi guardavano verso il futuro. Con la faccia arrossata dal freddo e dalla fatica un ciuffo di capelli cadeva sugli occhiali da sole. Gridava, batteva le mani... profumava. Era bella oltre ogni dire. Dietro, trentamila persone. Quel giorno Irene ballava. Quel giorno trentamila studenti ballavano..Gli sguardi fissi sulle sue mani con le unghie lunghe curate, sulle sue gambe che si muovevano a ritmo di musica, sul suo viso che quando sorrideva era un pugno forte in mezzo al petto. Ogni suo passo trentamila passi, ogni sua parola trentamila parole mentre l’aria aveva un sapore diverso quel giorno. Sapeva di panna. E sapeva di fragole. Noi la crisi non la paghiamo. Sei parole che escono dal cuore di chi sa che non può farcela, di chi sa che l’unico modo è andare avanti è lottare. E per questo si balla e si canta, per un giorno, per un giorno almeno.
Lo spirito è libero.
Se fai avanzare e fermare una frase per le vie della città, la responsabilità di quella frase e di tutte le persone che la seguono è praticamente solo tua. Ha qualcosa di eroico. Migliaia di occhi ti guardano e rimani nella memoria inciso per sempre. Che tu ne sia consapevole o meno. Incarni la lotta. Che tu lo voglia o no. Quel giorno Irene guidava il corteo ed emanava gioia. Quel giorno gli studenti la guardavano ed erano felici perché guardandola sapevano di essere dalla parte giusta. Battevano le mani cantavano, facevano casino quando lei lo diceva perché erano dalla parte giusta. Tutti avrebbero voluto essere lei e tutti lo erano. Nessuno lo era. Perché quel giorno, con gli occhi nocciola sangue, Irene era la lotta. Solo lei. Nessun altro avrebbe potuto esserlo così. Così.
Sei parole. Un corteo. Uno spirito libero.

INNSE, il tempo della lotta

Marzo 2009
C’era un tempo in cui gli operai occupavano le fabbriche. In cui la lotta era dei lavoratori, tutti, contro uno solo. Il padrone. C’era un tempo in cui del lavoro che facevano, per quanto pesante e faticoso, del sudore che gli colava ogni giorno sulla fronte, in qualche modo gli operai andavano fieri. C’era un tempo in cui la condizione da operaio la si sentiva dentro, nelle ossa e nel sangue che affluiva al cervello. In cui la fabbrica la vivevi e la respiravi e la lotta era questione di ogni giorno. Le macchine e il lavoro non erano del padrone. Erano degli operai. Quel tempo, per gli operai della INNSE, è ora. La INNSE è una fabbrica di Milano. 50 dipendenti. Produce e lavora ingranaggi e parti metalliche di grandi dimensioni. Alla INNSE, ad esempio, è stato prodotto e lavorato il nucleo dell’acceleratore di particelle del CERN di Ginevra ( quello che una volta messo in funzione avrebbe dovuto causare l’apertura di un buco nero). I capannoni della INNSE sorgono a Lambrate, unici superstiti produttivi di una vecchia zona industriale. Ma le zone industriali, si sa, di ‘sti tempi vengono smantellate. Laddove per decenni l’uomo ha lavorato, prodotto, guadagnato, laddove l’uomo si è creato un’esistenza, una comunità e spesso una coscienza, ora sorgono centri commerciali, Ikea, Castorama, Decathlon, palazzi di uffici o abitazioni formicaio. E così agli operai della INNSE, senza il minimo preavviso, in un giorno di giugno arriva una lettera del padrone. A partire dal 3 giugno la società ha deciso di cessare ogni attività. Saranno messi in cassa integrazione, poi in mobilità e poi liquidati. Ieri lavoravi, domani non lavori più. Ed è qui che inizia la lotta dei lavoratori della INNSE . Loro il lavoro continuano a farlo lo stesso. Si radunano davanti ai cancelli, si raggruppano in corteo ed entrano ad occupare la fabbrica. All’arrivo degli operai le guardie del padrone che presidiano l’edificio scappano. Non è solo una questione di sopravvivenza . Non è solo per lo stipendio con cui mantenere moglie e figli che lo fanno. Dalla luce dei loro occhi, dalla forza delle loro parole lo si capisce. Continuano a lavorare perché il lavoro c’è, le macchine funzionano, la fabbrica vive e produce e il padrone non è nessuno per poter decidere “adesso basta”.
“La nostra forza è quel macchinario e la gente in grado di utilizzarlo. Bene o male quest’officina è bella” (enzo, operaio INNSE) Genta è il nome del padrone che due anni prima ha acquistato la INNSE ad un prezzo stracciato: 700.000 euro con incentivi statali. Genta nonostante gli impegni presi con le istituzioni, a sviluppare l’azienda, sin dall’inizio aveva intenzione di rivendere i macchinari e far cessare la produzione ( guadagnando 7 milioni di euro, dieci volte tanto il prezzo d’acquisto). E’ con questo padrone, privo di scrupolo sociale, che guarda solo al proprio interesse che gli operai si scontrano. E in questa lotta sono soli. Il sindacato fatalista si dimostra e dichiara impotente. Le istituzioni, solidali a parole, in realtà non hanno volere e potere di agire contro Genta. Il sostegno reale agli operai in lotta arriva da chi i soldi ed il potere non li ha. Dagli operai di altre fabbriche, da cittadini comuni, da altri lavoratori, da ex operai della INNSE, dai centri sociali e dagli studenti dell’Onda. Per tre mesi i lavoratori della INNSE autogestiscono la produzione. Lavorano, mangiano, dormono, presidiano la fabbrica. L’accordo con i clienti è semplice: un pezzo lavorato esce se un’altro da lavorare viene commissionato. Respingono più di un tentativo di sabotaggio alle macchine. La produzione diretta, una produzione che funziona, a Genta non va giù e dopo tre mesi di occupazione gli operai vengono sgomberati dalle forze dell’ordine. Colti ancora mentre lavoravano nelle officine. Gli edifici sono messi sotto sequestro. Ma i lavoratori della INNSE non ci stanno ed occupano una portineria abbandonata davanti ai cancelli della fabbrica. Da questo momento per gli operai inizia il periodo più duro. Senza stipendio, con poche prospettive al gelo dell’inverno, resistono nella loro lotta. A dicembre la fabbrica viene dissequestrata e consegnata a Genta. Più volte il padrone cerca di entrare coi camion e i manovali per smontare le macchine. Più volte gli operai e chi li sostiene impediscono che questo avvenga. Alle quattro del mattino di un giorno di febbraio i camion di Genta arrivano scortati da più di 200 poliziotti. Nel buio della notte si forma subito un presidio un presidio davanti ai cancelli. Arriva una notizia, due camion sono riusciti ad entrare da un’entrata secondaria. Operai e sostenitori corrono. Bisogna impedirgli di iniziare a smontare le macchine. La polizia è schierata. Gli operai vogliono entrare, si spinge sui cordoni. Lo scontro è duro . I manganelli feriscono teste, spalle e braccia. I poliziotti picchiano e sono troppi. Gli operai non riescono a passare. Si arriva ad un accordo: Genta porterà via solo dei rottami sotto il controllo di 2 operai.
“ E le legnate che abbiamo preso?” chiede qualcuno. “ Le legnate che abbiamo preso, per questa volta, ce le teniamo” Risponde Enzo, testa alta, operaio della INNSE. Il presidio resiste per mesi. Finché in agosto, nonostante le istituzioni avessero garantito una “tregua estiva”, gli edifici della INNSE vengono militarizzati. Centinaia sono i poliziotti. I camion entrano e i manovali iniziano a smontare le macchine. Il presidio viene sgomberato, gli operai vengono respinti più volte. Dopo due giorni di scontri e di appelli inascoltati alle istituzioni, quattro operai ed un funzionario sindacale riescono ad aggirare i controlli e ad entrare in fabbrica. Una volta dentro scelgono la posizione più difendibile e salgono su un carro ponte ( una piattaforma mobile sopraelevata). Per ragioni di sicurezza la polizia è costretta a far sospendere lo smontaggio e a far sgomberare l’edificio. Otto giorni passano gli operai su quel carroponte. Nell’afa di agosto, tra il caldo insopportabile e le zanzare. Otto giorni nei quali, fuori, gli altri operai e i sostenitori organizzano cortei, continuano il presidio, occupano l’atrio della prefettura per farsi ricevere. Otto giorni nei quali un imprenditore si dirà disposto ad acquistare la INNSE. Otto giorni di trattative e alla fine, lo speculatore Genta venderà la fabbrica al nuovo padrone.
Il posto di lavoro dei lavoratori della INNSE è salvo.
I cinque resistenti scendono dal carroponte accolti da una grande folla festosa.
Gli operai della INNSE hanno vinto. C’era un tempo in cui gli operai occupavano le fabbriche. C’è un tempo in cui i lavoratori comprendono di essere una cosa sola, prendono coscienza di essere una comunità, di avere diritti ed interessi comuni. C’è un tempo di crisi in cui il sistema si compatta contro i lavoratori, gli studenti, i cittadini, li schiaccia e tende ad instaurare il potere del padronato e del privilegio. C’è un tempo in cui i lavoratori si devono unire nella lotta contro chi specula sul loro lavoro e sulle loro esistenze, contro chi vuole decidere della loro vita e dei loro diritti. C’è un tempo in cui la lotta deve essere dei lavoratori, tutti, contro uno solo. Il padrone e il sistema. Quel tempo è il tempo dei lavoratori della INNSE, di quelli di ALCOA e di EUTELIA, di tutti quelli che in questo momento stanno lottando per il posto di lavoro e per la propria dignità di persone.
Quel tempo è qui. Quel tempo è ora.

Piombo Fuso, una risposta gelida

Gennaio 2009
Immaginate una terra rossastra fatta solo di tante colline. Un tramonto, una vecchia seduta davanti a un fuoco. Immaginate il suono di una preghiera che lento si diffonde ovunque nell’aria al calar del sole, il mondo che sembra fermarsi. Immaginate gli ulivi, i limoni, il sapore della carne abbrustolita in un camino. Immaginate il brusio di tante voci serene nella sera, le luci che si accendono nelle finestre delle case. Immaginate in lontananza il rumore del mare… L’esplosione di una bomba bianca, la pelle bruciata e il fiato tagliato. Fissate le poltiglie umane tra le macerie. Ascoltate il rombo degli elicotteri gli scoppi assordanti i colpi dei carri e dei mortai. Sentite quelle grida. Osservate l’orrore. Non voltatevi. Guardate i corpi delle madri lasciate un colpo alla testa morte davanti ai figli. Non scappate. Assaporate il gelo. Il sangue della paura. La domanda è una sola. PERCHE’?!
Israele e le televisioni di tutto il mondo sanno il perché. E’ a causa dei razzi lanciati da Hamas. E’ inconfutabile. Nessuna voce può levarsi contro questa verità. E’ assurdo, l’assurdo portato a realtà viva. E l’Assurdo è inconfutabile perché è falso. Com’è possibile affermare che la seconda potenza militare del mondo sia minacciata dal lancio di razzi artigianali? Fanno altrettante vittime i botti nella notte di capodanno. Tagliate questo Assurdo, squarciate lo schermo, pulitevi gli occhi forte e guardate la realtà. Hamas. Hamas oggi rappresenta il popolo palestinese. Ha vinto le elezioni. Elezioni regolari, molto più regolari di quelle che si tengono anche nel nostro paese. No brogli, no tv ma politica vissuta dalle persone per strada. Hamas è un partito fondato su base religiosa e si può non essere d’accordo sulle ideologie e sulle pratiche ma ha vinto le elezioni perché ha saputo costruire una società dove non c’è uno stato. Sostegno di singoli e gruppi familiari, costruzione di scuole ed ospedali bando alla corruzione. Hamas non è un’organizzazione terroristica è la rappresentanza eletta da un popolo. Un popolo a cui, a Gaza, nei mesi precedenti all’operazione “Piombo Fuso” è stato impedito di commerciare e di poter ricevere prodotti alimentari. In nome di una tregua che non esisteva sono stati uccisi più di trenta palestinesi in quei mesi. E nel soffocamento indotto dai blocchi dei soldati israeliani la reazione è stata quella dei razzi che hanno dato il pretesto per un massacro atroce.
La domanda è una sola. PERCHE’?!
Le risposte sono tre. La risposta è una sola gelida come il ghiaccio. 1 Perché Israele mira a eliminare il problema palestinese attraverso un lento soffocamento dell’economia e delle condizioni di vita dei Territori. Elimina ad uno ad uno gli elementi che permettono agli arabi di vivere in Palestina. Lo fa attraverso una politica di soprusi che passa quasi totalmente sotto silenzio. In nome della sicurezza abbatte le case, sradica le coltivazioni, espropria terreni, blocca lo spostamento di merci e persone, si appropria delle sorgenti, chiude intere città e porzioni di territorio all’interno del perimetro delimitato dal Muro. Il Muro: una attaccata all’altra chilometri e chilometri di lastre di cemento alte otto metri e profonde due nel terreno. Il Muro che corre, taglia in due o circonda città e villaggi, spacca i campi fa scomparire case, ingrigisce e abbruttisce. Il Muro, una prigione. Molte industrie israeliane scaricano direttamente i propri rifiuti in Palestina anche vicino ai centri abitati, dove giocano i bambini e si rilassano gli anziani sulle verande. Qui il tasso di mortalità per malattia è altissimo e l’aria puzza costantemente di merda. Un pesante bombardamento durato venti giorni su delle città già ridotte sul lastrico, la demolizione delle poche strutture pubbliche esistenti, uniti all’ulteriore impoverimento di risorse già scarse, sono il colpo di grazia per l’economia e la vita del popolo palestinese a Gaza. Non c’è una guerra in Medioriente. Non ci sono due Stati, e due eserciti. C’è un solo Stato e un solo esercito da una parte e un popolo dall’altra. C’è un’occupazione militare che in maniera discreta e poco appariscente sta diventando lentamente una lunga operazione di pulizia etnica.
2 Perchè nessuno ha la volontà e il potere di impedirlo. Niente più che una generica indignazione per l’eccessiva portata dell’attacco è stata la reazione dei poteri mondiali. Non si è mai accennato neanche a sanzioni di tipo economico.
3 Perchè Israele vuole la guerra. Israele ha bisogno della guerra. E’ una condizione necessaria di esistenza per lo Stato. L’economia israeliana si basa sulla guerra, gira attorno ad una mole colossale e spropositata di armamenti, di strutture militari , di approvvigionamenti per l’esercito. Su questi si riversano gli interessi e gli immensi capitali sia dello Stato stesso, che di privati israeliani, americani ed europei e di multinazionali di tutto il mondo. La voce militare è un fattore portante del benessere israeliano e tocca anche le dinamiche sociali. In Israele la società è basata sulla guerra. Ogni civile israeliano è anche un soldato. Tutti, uomini e donne, hanno l’obbligo di prestare almeno due anni di servizio militare attivo nei territori palestinesi. Una volta terminato l’obbligo si rimane comunque riservisti fino alla vecchiaia. Le gerarchie sociali stesse si basano su quelle militari. E’ impossibile aspirare ad un posto di potere nel governo o nel parlamento se non si è svolto un ruolo chiave nell’esercito, nei servizi segreti o nei servizi di sicurezza. Ma anche a livello più basso la partecipazione a determinati corpi speciali dell’esercito dona prestigio alle famiglie. Come israeliano ciò che sei da cittadino lo devi a ciò che sei o sei stato come soldato. E i pochi, pochissimi che rifiutano il servizio di leva scontano pene carcerarie e sono emarginati dalle istituzioni e dalla comunità. Non trovano lavoro, non trovano comprensione, spesso neanche dai propri familiari, non trovano persone con cui socializzare: sono bollati a vita. Se vi si potesse di colpo far sparire tutte le strutture militari lo Stato di Israele si affloscerebbe su sé stesso come un corpo senza più scheletro.
PERCHE!? La risposta è una sola. Gelida come il ghiaccio.
Perché il mondo e Israele vogliono la guerra.