Philip guardava la zingara sul
palco. Il boccale di birra coperto di gelida brina stretto nella mano. La
zingara suonava il violino e l’uomo dai pochi denti gialli e storti cantava
con una voce calda e suadente. Il suono di quella musica lo portava via lontano
e la zingara era bellissima. Sotto un ciuffo di capelli biondo oro Philip la
fissava incantato. Passare l’archetto dolcemente sulle corde, persa tra le note
riflesse sulla chioma folta e scura. Il violino costante faceva da musica,
come se solo potesse essere orchestra. Philip accarezzò la lama fredda e dura
nella tasca dei pantaloni. Buttò giù in un solo sorso il mezzo boccale e fece
tintinnare con violenza il bicchiere sul tavolo. “Bravi! Brava!” Gridò mentre
in tutta la taverna l’entusiasmo per il piccolo concerto saliva sempre di più.
Alcuni vecchi avevano iniziato a battere il tempo col piede sulle assi di legno
e lo sdentato cantando si esibiva in pose grottesche dando libero sfogo alla
sua voce avvolgente. “ a quest’ora in questura, a quest’ora in questura” cantava
seguito incalzante dal violino. Philip tirò con prepotenza una cameriera per la
lunga gonna. “Portami un'altra birra donna!” sbraitò. I suoi occhi non si
staccavano da quelli della zingara.
Avvolta nella sinuosità delle melodie lei forse ricambiava..forse con malizia.
Forse con indifferenza. Philip continuava a tastare la lama nascosta tra le
dita nei pantaloni. La sentiva fredda e micidiale. Ghiaccio elettrico, l’idea
di poterla usare, di penetrare nella carne viva e pulsante lo esaltava come lo
esaltavano la musica e l’alcool. Quanto
sei bella zingara. Pensò mentre strappava il nuovo boccale dalle mani della
cameriera bionda. “Hei , hei hei!” Cantava ora la folla fumosa della taverna.
Al duo si era ora aggiunto un giovane dai capelli scuri. Con una chitarra
acustica le melodie volavano sempre più allegre e veloci. Il giovane suonava in
un botta e risposta col violino sotto gli occhi divertiti dello sdentato. Il
vecchio perso in un’estasi emetteva strani versi a ritmo di musica. Chitarra e
violino danzavano armonici di sguardi e Philip strinse forte il filo del
coltello. Percepì il sangue colargli lento sul palmo. Appena un graffio tra le
linee scavate nella pelle. Chissà se la zingara avrebbe saputo leggerle quelle
linee. La vita. La salute. L’amore. Guardò fisso il giovane che danzava ammiccante
tra gli accordi e in una frazione di secondo balenò nella mente l’immagine
nitida di come li avrebbe ammazzati. Quella capacità istantanea di
progettazione della morte era in lui qualità innata ed inspiegabile. Assieme ad
una cattiveria profonda ed abissale. Philip il biondo, Philip il bello. La sua
anima affondava le radici in un substrato oscuro e marcio. Freddo, preciso,
calcolatore oltre l’umano. La bellezza fisica e i capelli biondissimi li aveva
ereditati dalla madre morta in una lunga agonia dopo il parto. La prepotenza e
l’arroganza dei modi venivano invece dal padre. Henry, il padrone. Signore di
quasi tutti i terreni della zona. Philip estrasse la mano tagliata dalla tasca
ed unendosi al calore generale applaudì gridando ” Ancora ragazzi! ballate
cantate! Ancora, ancora!” Sul suo viso si apriva uno splendido sorriso
gioviale. Le mani battevano, le guance erano arrossate di birra e allegria. Ma
gli occhi erano grigi e gelidi. Gli occhi vitrei di un assassino che si prepara
a colpire. La porta del locale si aprì ed un uomo fece il suo ingresso in mezzo
alla festa. Nessuno si voltò, nessuno parve accorgersi del nuovo arrivato ma
qualcosa sfrigolò nel cervello di Philip. Un qualche istinto animale di
conservazione che lo costrinse a girare la testa. Philip aveva sentito come la
carezza di uno sguardo denso sulla nuca. L’ospite era fermo in piedi. Poteva
sembrare un mendicante o forse un qualche tipo di frate. Si appoggiava ad uno
spesso e contorto bastone scuro che sembrava, anzi era un ramo d’abete raccolto
nel bosco. Indossava una tonaca di grezzo tessuto marrone sbiadito fino a
sembrare grigio. Dal fondo spuntavano i piedi nudi calzati in sandali di cuoio
sgualciti e la testa era coperta da un ampio cappuccio che lasciava
costantemente il viso in ombra. Solo la parvenza di una barba argentea si
intravedeva nell’oscurità
imperscrutabile. Philip ebbe una sussulto e senti stringersi forte la
bocca dello stomaco. Paura? Non era possibile, lui non provava mai paura. L’idea
che gli occhi del monaco fossero fissi su di lui era una certezza negata dalle
tenebre del cappuccio. Uno sguardo forte. Come se la mano grinzosa del vecchio piano
gli stesse stringendo il collo…sempre di più. Il rumore degli schiamazzi e della musica
arrivava ovattato. Il sorriso si spense sul suo viso. Philip non riusciva a muoversi,
bloccato inerme dal magnetismo di quella figura. Il respiro ormai fioco, quasi
fermo. Panico? Non era possibile. Lui non provava mai panico. Poi d’improvviso un
vigoroso strattone lo scaraventò fuori da quell’impasse irreale, riscuotendolo.
Il chiasso della taverna lo investì nitido in un’esplosione di voci, musica e
odori. La cicciona rossa del tavolo affianco lo stava tirando per la spalla
invitandolo a ballare. Un cerchio di uomini e donne si era creato davanti ai suonatori. Voce
chitarra e violino spingevano ora più che mai e il sentore di birra e fumo
stagnava caldo nell’aria. La cicciona puzzava di sudore e gli sorrideva
languida. Philip le posò una mano sulle chiappe flaccide e strinse. La cicciona
ubriaca sorrise con un gridolino. Lo tirò ancor più verso di sé e gli piantò in faccia due enormi tette molli e
sproporzionate. I due si persero nel ballo. Nel trambusto Philip cercò la
figura del monaco all’ingresso ma era sparita. Forse non era mai esistita. Mentre
ballava con la balena ubriaca Philip guardò nuovamente la zingara e il
chitarrista. La cicciona cercava di strusciarsi in ogni modo. Contro la sua
coscia flaccida sentì la consistenza del coltello che aderiva alla gamba.
Philip guardò la zingara e il chitarrista e i suoi occhi di ghiaccio brillarono
di nuovo.
Appostato nel buio dentro al
recinto dei cavalli Philip aspettava. Il coltello lampeggiava alla fioca luce
della lanterna . Faceva scorrere delicatamente il filo contro uno dei grossi
legni dello steccato. L’acciaio di quella lama era di una qualità superiore.
Leggera ed allo stesso tempo spessa e inflessibile. Era un coltello non più
lungo di un palmo ma era affilato come un rasoio. Una lunga e profonda
incisione rimaneva solcata nel legno ad ogni passaggio del metallo. Philip
guardava la porta della taverna. Era ormai notte tarda e anche gli ultimi
ubriachi erano stati cacciati dal locale. Loro sarebbero usciti per ultimi. Insieme
al padrone, pensò. Zing! Zing! Ad ogni vibrazione d’acciaio i cavalli nitrivano
scalpitando nervosi alle sue spalle. Inquietati da quel suono e dalla sua
malvagia presenza. Il cielo nero rombava distante. Immense nuvole plumbee
ristagnavano da qualche giorno ormai. Ogni tanto scatenavano un inferno di
acqua e fulmini per poi tornare cupe a scrutare dall’alto la terra. Sembrava
che non sarebbero più andate via. Ma a Philip questo andava bene perché quella
notte non il più piccolo bagliore di luce filtrava attraverso la coltre. Il
buio era totale. Immerso nella pece era solo sfiorato dall’idea di fiamma che
illuminava l’ingresso della taverna bruciando appesa in una vecchia lampada ad
olio . Anche se avessero scrutato con insistenza il punto esatto in cui si
trovava, non sarebbero riusciti a scorgerlo. Uscendo dal locale illuminato i
loro occhi sarebbero stati come ciechi e lui avrebbe agito. Libero, rapido e
protetto dalla densità oscura ormai parte di lui. Filtrata lenta nel suo corpo
attraverso i pori. Attraveso l’iride. Quella notte Philip il biondo impersonava
le tenebre. Un tuono e un lampo squarciarono l’aria e la terra tremò. I cavalli
si agitarono convulsamente nitrendo e scalciando. Philip si girò di scatto e
sferrò uno schiaffo potente sul muso dell’animale più vicino. Maledette bestie!
Forse avrebbe potuto iniziare la serata con un lavoretto di lama su di uno di
quei corpi pelosi. Così, giusto per ingannare l’attesa. Biglie d’acqua rade e
pesanti iniziarono colpire le colline. Presto la polvere sarebbe diventata
fango. Philip udì il cigolio della porta che si apriva. Ci siamo pensò. Un brivido di adrenalina percorse il suo corpo. Si
acquattò fino quasi a sdraiarsi sotto l’ultima asse del recinto e strinse forte
l’impugnatura consunta del suo strumento di morte.
Dal locale uscirono il padrone e
la moglie, il cantante dai denti gialli e poi lei, la zingara. La provocazione
della sua bellezza era uno schiaffo di sfida. I lunghi capelli neri, quel corpo
magro e sensuale sotto i vestiti malconci. Uno sguardo profondo, più scuro del
buio che opprimeva ogni cosa. Philip trattenne il respiro. Dalla porta uscì
anche lui, il ragazzo, stringendo la chitarra e il violino di lei. La grassa
risata dell’oste scoppiò più fragorosa dei tuoni che arrivavano da lontano.
“Chiquita! Chiquita, chiudi sta
vacca di taverna che io e il mio amico zingaro ci andiamo a sbronzare!” gridò
alla moglie. Mentre questa girava il chiavistello, l’oste tirò una vigorosa
manata sulla schiena del cantante. “Vecchio mio!... ora ti fassio assaggiare
una bottiglia di whiscky che non hai mai provato in vita tua” sbiascicò tra i
fumi dell’alcol. “ Settantacinque anni nel legno di rofere…il più aromatico che
ci sià! Il più aromatico!” Lo sdentato
sorrideva e annuiva mostrando i suoi moncherini ocra. “Chiquita sbrigati prima
che sta sporca…prima che sta porca di pioggia ci porti via tutti quanti…gente
venite con noi!” disse rivolto alla zingara e al ragazzo. Bastò uno sguardo
d’intesa tra i due. “Grazie oste” disse la voce suadente della zingara “ma ho
bisogno di riposare…credo che andrò a sdraiarmi nel mio carro. Questo nobiluomo
mi accompagnerà per la via… e poi, credo, si ritirerà..” Strinse appena la
palpebra sinistra in un segnale inconfondibile. L’oste scoppiò in un’altra
assordante risata. “Coome vuole lei signorina!” gridò ammiccando. “vieni
vecchio mio…Chiquità muoviti che spio…muoviti che piove!” “Non fare tardi papà!”
gridò la zingara allo sdentato mentre i tre già si avviavano verso la strada.
Rimasti soli, sotto la fioca luce della lampada, senza dire una parola i due ragazzi si baciarono. Tenerezza e passione. Labbra perse nelle
labbra. Dita contro le pelli di due corpi che si scoprono. In un abbraccio
stretto, il profumo dei suoi capelli. La forza delle sue mani. Groviglio di
carne calda pulsante di sangue, saliva, liquidi umani. Cercandosi, toccandosi,
fondendosi in una sola essenza, tra reazioni chimiche e catalizzatori. Esseri
legati in un unico assurdo nodo antropomorfo. Gli amanti. Nonostante la
pioggia. Nonostante il buio. Il ragazzo lasciò cadere gli strumenti sul patio
di legno e strinse forte la zingara.
A quel punto Philip scattò. Decise
che aveva visto troppo. Insensibile, gelido, sorrise e scattò. Ora vi ammazzo come cani. Si mosse rapido
nell’oscurità. Fulmineo e silenzioso in un solo movimento si alzo e balzò in
avanti col braccio e il coltello protesi verso i due amanti. L’attimo nella sua
mente visionò la punta d’acciaio che penetrava nella nuca di lei e nel collo di
lui inchiodandoli assieme alla porta senza che avessero il tempo di emettere un
grido. Dopo, lordandosi del loro sangue li avrebbe guardati morire. Ma non andò
così. Una frazione di secondo dopo che il suo corpo era scattato un lampo
illuminò il cielo e un cavallo nitrì. Il garzone perso nel bacio aprì gli occhi
e percepì che qualcosa li stava per colpire. D’istinto si buttò di lato sul
patio trascinando con sé la ragazza senza che neanche le due bocche si
staccassero. Il garzone vide distintamente la lama sfiorargli la guancia
brillando alla luce del lampo, sentì lo squarcio che si apriva nella carne
tenera in un graffio doloroso. Mancato
il colpo Philip incespicò sui due corpi buttati di lato. Con la testa scontrò
la lampada ad olio che cadde spegnendosi sul terreno ormai fangoso sferzato
dalla pioggia. Cazzo! Pensò. Il
coltello si piantò secco nel legno della porta e con stupore Philip sentì la
vibrazione del fendente risalirgli fino alla spalla. Non ci poteva credere.
Aveva mancato il colpo! La Zingara gridò forte. Nella caduta i due crani
avevano cozzato forte, denti e lingue si erano morsicati come se i due stessero cercando
di divorarsi a vicenda e piacere del sesso aveva lasciato il posto ad un orrifico
sapore di sangue e saliva. Canini spezzati
tra le gengive nel contraccolpo. Orrore. Istinto. Quello del garzone funzionò.
Spinse via la zingara gridando “Corrì!” Si rialzò e sferro un calcio alla cieca
verso l’aggressore. Philip confuso stava
ancora scivolando con i piedi infangati e il viso schiacciato attaccato alla
porta. Non era ancora riuscito a lasciare l’impugnatura dell’arma bloccata nel
legno. Il calcio lo colse completamente impreparato. Sentì la bocca dello
stomaco accartocciarsi negandogli il respiro. Emettendo un rantolo si piegò
in ginocchio per il dolore. Il giovane dai capelli scuri si era buttato in strada dietro alla zingara. Ma il dolore atroce di Philip durò solo un
secondo. In un lampo fu di nuovo in piedi e con uno strattone vigoroso estrasse
il coltello dall’asse di quercia della porta della locanda. Ogni muscolo gli
vibrava d’odio e i suoi occhi malvagi dardeggiavano nel buio. Grugnì vigorosamente di rabbia. Non poteva far
riconoscere la propria voce. Aveva mancato il colpo! Bastardi! Vi ammazzo!Non mi scapperete. Siete morti! Siete morti tutti
e due! Philip era più forte. Philip era più
veloce, era più atletico. I suoi occhi
vedevano perfettamente anche nel buio più assoluto. Ma soprattutto Philip era
capace di uccidere. Non ci sarebbe stata lotta. Non avevano scampo.
Philip si girò per lanciarsi
all’inseguimento ma di colpo il panico lo attanagliò. Restò fermo come un blocco
di pietra nello slancio. Il cuore palpitò di un battito sfasato e quasi dal
torace non gli sfuggì lo stridulio di un
grido. Iniziò ad arretrare con le gambe tremanti finchè le spalle non
toccarono la parete esterna della
locanda. Non è possibile. Pensò. Non
era possibile ma lui lo vedeva. Fermo nel buio appoggiato al suo bastone.
Esattamente nel punto dove lui poco prima si era acquattato per tendere
l’agguato. Lo scrutava nero e immobile dalle tenebre del recinto. Sferzato
dalla pioggia, immobile come il moncone di una grossa quercia bruciata dal
fulmine. Volto imperscrutabile sotto l’oscurità del cappuccio. Il monaco avanzò
deciso verso Philip. Questi non riusciva a distogliere lo sguardo, non riusciva
più a muoversi. Ad ogni passo del vecchio l’orrore cresceva sempre più
incontrollato. Avrebbe voluto fuggire, avrebbe voluto gridare ma non riusciva e
non capiva neanche quella sensazione. Lui non provava mai paura, mai! Specie
per un inutile vecchio frate o mendicante che fosse. Eppure si era fatto statua
di sale e non era più in grado di muoversi. Presto il monaco lo avrebbe ucciso.
Un lampo imbiancò il cielo e il
biondo ne fu accecato. Philip chiuse gli occhi e li riaprì.
Li riaprì. Cercò il vecchio ma
non lo vide. Solo tenebre e pioggia incessante. Quanto tempo era passato? Un
secondo. Dieci minuti. Tre ore. Non
riusciva a capire. Più di quello che gli era parso. Il vecchio non c’era più. Soffocato dallo
scrosciare dell’acqua in lontananza gli parve di percepire delle grida. I
giovani erano arrivati alla casa dell’oste. Presto sarebbero tornati con le
torce e i forconi. Sarebbero arrivati in molti. Anche con i fucili. Si guardò
intorno per vedere se l’uomo non si fosse nascosto da qualche parte ma non
c’era nessuno. Altre grida lontane ma non così tanto. Era il momento di andare.
Vagliò le possibilità che aveva e in un attimo prese una decisione. Entrò nel
recinto, salì su un cavallo a caso e si lanciò al galoppo nel buio sui prati.
Verso la tenuta. Lì di sicuro non sarebbero venuti a cercare. La pioggia
avrebbe cancellato le impronte. Cavalcando a pelo si lasciava sferzare il viso
dall’acqua. Ma l’immagine del vecchio restava fissa e inquietante nei suoi occhi.
Subito prima di quella della zingara e degli amanti. Tastò la lama gelida nella
tasca dei pantaloni. Non sarebbe finita così. Quella pioggia splendida sulle
colline. Sembrava davvero non dover smettere mai.
Una perfetta descrizione del senso di panico...è proprio così...
RispondiEliminaErika