04/06/13

il folle sulla collina


Il suo principio di base era non lavorare. Quando arrivammo stava facendo esattamente questo. Non lavorava. Era seduto all’ingresso del paese con il cappuccio grigio della giacca tirato su. Guardava fisso un punto davanti a sé.  Di fronte la vista si estendeva. Colline ripide scure e boscose, punteggiate di case e paesi inerpicati nel nulla. Lontano, in fondo, Il mare. Ma i suoi occhi non sembravano così distanti. Erano fissi nel grigio del cielo a non più di cinquanta metri dal suo viso. Di spalle, non ci sentì nemmeno arrivare dal sentiero. Il che fa strano se vivi in un posto dove sostanzialmente non c’è nessuno. Ogni rumore, soprattutto quello di passi dovrebbe attirare la tua attenzione. Di primo impatto intimoriva. Sembrava un presagio di morte. Muto e senza volto all’ingresso del villaggio abbandonato. Rispose solo al terzo saluto, per nulla stupito di vedere due facce nuove in quel posto. Il folle sulla collina viveva così. Senza fare nulla, quasi avvolto nell’edera. L’amico delle capre aveva un senso. Nella sua solitudine triste e profonda. Ma tutto il resto odorava di insano. Nessuna delle case era stata davvero risistemata. Semplicemente quelle il cui pavimento era camminabile erano state occupate. Catene e lucchetti chiudevano alcune porte. “Canate non è per tutti, te la devi conquistare” era la scritta su una di queste porte, subito accanto parole deliranti sull’ira di Dio verso i peccatori. Anche nelle case abitate lo stato di abbandono era palesemente percepibile. Catene e lucchetti ponevano soltanto divieti arbitrari su proprietà fasulle, fatte di nulla nel nulla. Quando ci sedemmo a mangiare il folle si affacciò da una finestra della casa di fronte. Si mise a ridere perché una gatta spelacchiata ci chiedeva del cibo. Rideva davvero di gusto, divertito. Come se fosse la scena migliore che gli capitava di vedere da mesi. Poi venne giù sgambettando di corsa. Teneva una bottiglia e delle tazzine in mano. “Brandy?” ci disse e versò tre bicchieri di brodaglia color rame. Parlava e sembrava felice che fossimo lì, probabilmente ancora per la scena del gatto. Il brandy era pressoché imbevibile e tutta l’attenzione non riusciva a non essere concentrata sull’enorme pustola gialla che pulsava sulla guancia del folle. Sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro. Ci raccontò che al massimo erano una decina a vivere in paese. Tutti suoi amici. Lui viveva lì da quasi un anno e mezzo ma non riusciva a stare sette giorni su sette. Ogni tanto doveva scendere in città e lavorare. Accennò sconclusionatamente al farsi il pane da soli e ad avere il grano  per poterlo fare, perché il suo obiettivo era quello di non lavorare più. Guardai le sue mani. Erano luride ma non erano sporche. Mani che non avevano mai dato un colpo di zappa. Ci guardava con curiosità e diffidenza. Cercavo un istante, in cui rovesciare il brandy nell’erba lontano dal suo sguardo ma i suoi occhi non mollavano mai. Forse per via delle preziose tazzine in cui stavamo bevendo. Tazzine che avevano tutta l’aria di essere state taccheggiate in un bar della Val Bisagno. Nel frattempo di bicchieri se n’era scolati tre. Ci ammonì di non fare foto alle cose private, tipo le magliette stese. Poi ci confidò che la casa accanto alla sua era ancora buona e che se avessimo voluto avremmo potuto prenderla e viverci. Bastava chiuderla con una catena. Più si lasciava trasportare dalla foga dei discorsi più la pustola sulla guancia si tendeva tremolando. Sembrava essere lei, la pustola, la mente pensante della situazione. Disgustosa gli suggeriva le parole tra una risata e l’altra.  Mi arresi. Gli dissi che avevo problemi di stomaco e che mi spiaceva ma non riuscivo a bere il suo pur buonissimo brandy. Si rabbuiò immediatamente, mi disse che avrei potuto avvisarlo e riversò la mia tazzina all’interno della bottiglia. Subito dopo se ne versò un quarto bicchiere. Per curiosità e per non contrariarlo entrammo a dare un occhio alla casa. Due piani. Dentro non c’era nulla. I pavimenti di legno reggevano ma lo scricchiolio dava l’idea che potessero sfondarsi da un momento all’altro. Non c’erano vetri alle finestre e il soffitto di legno del secondo piano pendeva pesantemente sulle stanze, marcio e gonfio di umidità. Anche volendo ci sarebbero voluti anni per poter rendere quel posto vivibile. Non ci lasciò entrare nella “sua” casa ma immagino, essendoci stato già anni prima, che non dovesse essere in condizioni molto differenti. Al folle della collina però bastava così. La considerava sua. Non lavorava. Quando uscimmo era di nuovo seduto nella posizione originale a fissare il nulla qualche metro davanti a lui rivolto verso la valle e il mare. Dovetti proprio salutarlo perché si accorgesse di nuovo di noi. Se fossimo andati via così senza dire nulla non avrebbe battuto ciglio. Stringendo la sua mano vidi che la pustola era esplosa. Un senso di viscido si impadronì della pelle delle mie dita. Un senso di malessere profondo mentre si camminava verso Genova sul sentiero. Non avrebbe dovuto essere così. Disagio che si autoalimentava isolandosi in un bosco tra le case diroccate. Mi girai a guardarlo da un po’ più lontano. Immobile fisso nel vuoto. Brandy?
 

Le mani sporche


Le mani sporche. Segno di un modo di intendere la vita. L’interazione con il mondo che ci circonda. Mani screpolate nei cui interstizi si accumula polvere, fango, terra. Le mani sporche sono mani che toccano, mani che agiscono, mani che vivono. Seduto di fronte a noi, le mani dell’amico delle capre sono sporche. Così tanto da essere sporco indelebile. Ma la sua voce è tranquilla mentre parla, esce con una serenità diversa anche se si vede che non è tanto abituato a rapportarsi con estranei e con uomini in genere. Le sue parole sono lucide, frutto di lunghe riflessioni nel silenzio delle giornate sui prati. I concetti sembrano espressi con una semplicità sconcertante, anche se profondi ed articolati non lasciano spazio al fatto che quella è una logica giusta e l’altra è una logica sbagliata, o semplicemente non è logica. La stufa in ferro brucia di poca brace dietro. La stanza è minuscola, più facile da riscaldare. Panche e tavolo di legno vecchio. In tre la riempiamo completamente. E’ fatta per uno soltanto. Del pane abbrustolisce in una teglia annerita, sulla ruggine calda della stufa. E’ per le capre ci spiega. Odore affumicato, un po’ di umido, un po’ di freddo, un po’ di bestia. Perfetto per il caffè che ci sta offrendo. Siamo a maggio ma quest’anno il freddo non smette. Entra placido nelle ossa preparate a un po’ di sole e di caldo. Vestiti sporchi. Ci racconta di come sia ormai giunto il tempo della fine dell’era industriale. La necessità per l’uomo di fare un passo indietro. Di ritornare alle terre a vivere in una società rurale. Allevatore, agricoltore. Fare un passo indietro però, ci dice, è più difficile che farne uno avanti.  Il paese, Canate, è vuoto da più di 50 anni. Dopo la guerra i giovani andarono tutti giù a Genova a lavorare in CULMV al porto.  I vecchi, anche quelli che volevano continuare a vivere lì, non ce la potevano fare. Canate si raggiunge solo a piedi attraverso il bosco. Non ci puoi mettere meno di quaranta minuti oggettivi, su di una strada che scende e poi sale e parte da un paese di una ventina di case a nome Marsiglia. Per i partigiani fu una località strategica, serviva per la guerriglia. Base di contatto con la città, rifugio e rifornimento. Tra le case vuote, che sempre più si fanno ruderi, una targa ricorda il coraggio degli abitanti del paese dato alle fiamme dai nazisti per rappresaglia. Fa strano; una storia lontana ormai persa e finita. Omaggio ai fantasmi incrostati in quei muri. Saranno venti le case tre o quattro accessibili le altre in rovina. Pavimenti sfondati, soffitti che crollano, mura aperte tra oggetti di una vita passata, gesti sospesi incompiuti. Le botti in cantina, piatti bottiglie, una scarpa da donna, una giacca appesa ad un muro. L’amico delle capre scuote la teglia del pane e d’improvviso rumore di zoccoli sul legno ed una testa cornuta spunta dalla porta. Le parla. La cosa incredibile è che lei sembra capire. Un pezzo di pane e poi la caccia via con un grido. La parola compromesso per l’amico delle capre non esiste. Si arrabbia quasi a sentirla pronunciare. Commercio è un altro termine che non gli garba.  Gli piace molto però la parola gradualità. Gradualità delle cose, delle scelte con cui si cambia. Gradualmente, così come deve avere fatto lui. Alla domanda d’approccio “come si sta qui?” la sua risposta è stata “ da re!”. La serenità nella voce e nello sguardo, i vestiti, le mani sporche. Non c’è acqua a Canate se non quella della fontana. Non c’è luce, non c’è gas. Cercate di non fare domande standardizzate, ci ha avvertito prima di iniziare a conversare. Chiediamo cose, lui parla. Mai troppo. Quasi mai di sé. Riprende la teglia del pane e usciamo. Sono sette le capre. Bianche e nere. Più un piccolino che sembra un peluche. Gli parla, lo ascoltano e si affollano intorno a prendere il pane. Saltellano ci mordicchiano e ci esplorano. Ne aveva due all’inizio, le altre le ha fatte nascere lui. Si percepisce l’affetto reciproco. D’un tratto saltando la capra più grossa fa cadere una pietra da un muretto a secco ed è subito un ceffone forte sul muso. Gli grida come un marito ubriaco ad una moglie un po’ stupida. La picchia, e poi ancora.  Canate è arroccato sulla collina. Prende il sole e guarda, lontano il mare. C’è silenzio, ci sono i boschi a Canate. Le mani sporche. Le capisco.  Le vorrei. Il mio compagno le ha già, più di me. Solitudine. Totale. Interiore. Neanche una donna ma una capra. Parlare, quando si può. Serenamente ma con fatica, soltanto a sé stessi. Questo non lo capisco.  Le mani sporche, la serenità dello sguardo. Soli, davvero. Il cuore prima o poi va in frantumi. L’amico delle capre, a Canate, c’è da cinque anni.