26/06/12

Le stelle di Sampi

In fondo anche a Sampi bastava poco per vedere le stelle.  Bastava un lampione di meno. Una luce che si spegneva in alto sulla strada. Controllata da uno stupido meccanismo per il risparmio energetico. Spenta, le stelle. Accesa, il solito squallore.  Pietra asfalto e cemento in cui proliferavano i topi. Luca guardava le stelle. Appoggiato ad un camioncino bianco, la sigaretta dimenticata accesa tra le dita. Proiettava lo sguardo oltre la luce arancione di quel lampione. Sui puntini bianchi del piccolo carro. Il piccolo e il grande carro. Non conosceva altro del cielo. Ma quelle due forme sin da bambino le distingueva bene. Come tutti. Alzando la testa alla notte le sapeva vedere. Semplici, dirette, presenti nel buio. A volte immaginava di vivere in un mondo dove ogni sera calato il sole non ci fosse luce. Avvolto nelle tenebre ci sarebbe stata solo una coperta di stelle. La fiamma di un fuoco o di qualche candela non sarebbe bastata a coprirle, le stelle. Sul mare. Nel bosco. L’essere si sarebbe lasciato divorare da quella sensazione di immensità e Luca si sarebbe sentito piccolo piccolo. Invisibile. Una cacchettina di formica nel cielo infinito. Un tempo così doveva essere già esistito. Indietro lontano, ma neanche poi troppo. Ehi ma che cazzo di pensieri faceva? Il lampione si riaccese accecandolo. “Cristo!” mormorò  stringendo gli occhi ed abbassando la testa. Il viso tornò ad un mondo più finito.  Sul camioncino appoggiato affianco a lui Ale stringeva un bicchiere di birra ormai calda e bavosa.  Ubriaco ciondolava da un piede all’altro fissando l’asfalto. Ognuno perso nei propri tristi alcolici pensieri. Luca guardò l’ora. Le tre di notte. Com’era che erano finiti a bere l’ultima birra in via Sampierdarena? In un kebabbaro tra papponi puttane e porci clienti. Non lo ricordava,  ma quella birra in fondo ci stava.
 Tette. Erano state l’argomento di conversazione principale fino a poco prima. Prima di perdersi in apatici sogni solitari. Tette. Quanto sono belle. “Le tette sono il sale della vita” avevano convenuto. Forme, consistenza al tatto,dimensione dei capezzoli. Avevano parlato di tutto e formulato diverse teorie fisiche sul movimento appendaun (o ballonzolare), fluidità della materia, distanza tra i seni e i coseni e ovviamente stilato una classifica. Di quelle viste, di quelle mai viste, di quelle sognate. Tette che al massimo avevano scrutato come montagnole sotto  strati di maglie e cappotti. Tette che mai avrebbero neanche potuto sfiorare. Ma nella notte, nell’alcool certe immagini ritornano e se ne parla a lungo ubriachi.
D’improvviso Totò fece trambusto. Ci fu una convulsione di squittii e una decina di grossi ratti  fuggì da dietro i cassonetti. “Totò lascia stare i topi!” gridò Ale. Il cane zoppicante spuntò tra i bidoni con lo sguardo di chi l’aveva fatta grossa. Era un fascio nero di muscoli. Muso aggressivo ma due occhioni dall’espressività quasi umana. Totò era un buon cane. Giocoso e ubbidiente. Mai cattivo con gli uomini e sempre pronto a inseguire un gatto o un fascista. Da qualche tempo una grossa cisti sulla zampa anteriore lo faceva zoppicare vivacemente. Riscossi dal torpore alcolico i due ubriachi si fissarono. Totò placido scodinzolava in attesa. “Che cazzo facciamo?” disse Luca.  “Boh!” rispose Ale e si scolò d’un sorso il resto di quello che ormai proprio sembrava piscio. Avrebbero potuto  trattare l’argomento culi ma ormai sapevano già tutto e poi non dava tanta soddisfazione quanto l’argomento tette. Si guardarono intorno nella piazzetta del mercato.  Macchine posteggiate dappertutto, lerciume, asfalto crepato, palazzi alti sette-otto piani. VALENTINA CICCIOBOMBA scritto su un muro, cicche di siga ovunque e qualche falce e martello qua e là. Il lampione si spense e quasi in contemporanea i loro sguardi si posarono dritti davanti a loro. Una porta in legno dipinta di verde scuro sembrava scrutarli con aria di sfida. Sopra quella porta la Fortezza. Una villa ottocentesca piazzata così in mezzo al quartiere. In realtà Sampierdarena era piena di quelle ville, piena anche di torrette medievali e un tempo di aiuole e di verde. Chissà che bella che era. Indietro lontano, ma neanche poi troppo. La spiaggia, il mare. La vita che proliferava, i mercati, la pesca, le osterie, il verde, l’aria pulita. Poi venne il Fascismo. Decise che tra Sampierdarena e Genova c’era una collina di troppo e la terra venne sventrata. La collina tagliata come con una grossa spada e da quel giorno, da quel vuoto a Sampi arrivò il vento. Fredda, dura, cattiva. La tramontana ti martella sul collo in autunno e in inverno. Fa cadere i vasi, sbattere porte e persiane, rabbrividire sotto i baveri dei cappotti. Poi, più avanti, si costruì il porto. Non più ciottoli e barche da pesca ma lastre in cemento e petroliere. Lunghe lingue grigie sull’acqua sempre più nera. Luci a giorno anche di notte, grossi camion rombanti. Migliaia di formiche a caricare e scaricare container a volte cadendo, a volte rimanendo schiacciati, non bagnandosi mai più in quelle acque. Arti lasciati a muoversi tra le grida, strappati dal corpo. Acque ormai nere per l’eternità.  Ratti di terra sulle banchine, pesci di fogna al di qua della diga, Cefali orrendi brulicanti intorno agli scarti umani, topi di cielo nell’aria inquinata. Gabbiani assassini in cerca di prede da uccidere, insulsi piccioni e fiumi di guano.  Lucido e bianco. Quel porto è una merda. In quel porto visse e proliferò la lotta proletaria. Ma quel porto è comunque una merda. Poi venne l’acciaieria di Cornigliano e i venti tenebrosi trasportati oltre il ponte. Fuliggine nera sui vecchi palazzi, strato dopo strato… e dalle facciate i volti di pietra iniziarono a lacrimare catrame. Fecero grandi strade e sempre più macchine iniziarono a passare. A fermarsi, ad essere lasciate ai bordi delle vie. Parcheggio, lo chiamano.  Sempre di più. Accatastate quasi una sull’altra. E quando le macchine furono così tante che tutte insieme non riuscivano a muoversi costruirono una strada sopraelevata per farle volare. Strada Aldo Moro. Pilastri d’acciaio a sfondare il cemento. Sopra si vola sotto si soffre. Metropolis. Camionisti,  vecchi e puttane tra quei piloni bluastri. Poi si decise che l’antico quartiere di osterie sul mare non andava più bene. Che cazzo, erano case vecchie, umide, stantie! Non consone ad un quartiere moderno. E poi il mare non c’era più. Ora c’era il porto. La Coscia, così si chiamava, venne rasa al suolo. Al suo posto furono eretti enormi palazzi da una ventina di piani. Monumenti alla modernità. Che belli i grattacieli! Spiccano verso l’alto creandosi il vuoto intorno. Desolazioni senza marciapiedi, ombre lunghe sulle strade stracolme di motori. Formiche intellettuali a chiudersi ogni giorno negli uffici di vetro. Vetro azzurro, lucido splendente. Pareti a strapiombo che si colorano di cielo. Grigio o blu. Le rondini migrano ogni autunno, ogni primavera. Rumori sordi di schianto. Chiazze rosse di sangue su quelle finestre. Com’è bello il cristallo che sembra cielo. Sampierdarena. Migliaia di edifici costruiti ovunque ci fosse uno spazio libero, sempre più alti sempre più vicini. Fin quasi a lassù sulla cresta dei monti. In mezzo le case, le fabbriche,  le ville di un tempo. Oggi a volte ospedali. A volte uffici. A volte scuole. W la fica sull’affresco di un putto. A volte in rovina. Tra queste, la Fortezza. Prima villa, poi scuola, poi niente. A morire di nulla nella piazza del mercato. Ci ospitiamo dei profughi? Dalla Tunisia dalla Libia, scappano dalla guerra. Non si può. Qualche pivello mentecatto si sente invaso. Fa esplodere una bomboletta di gas da campeggio con un petardo lì dentro. LA BOMBA!!! Riportano i giornali. E allora no. Ancora niente, ancora vuoto nella Fortezza in mezzo al mercato.
La porta verde. Fu Luca il primo a dirlo. “Entriamo lì dentro…”  ”Dove…alla Fortezza?”  chiese Ale, ma sapeva di cosa stava parlando. Lo sguardo dei due era fisso sul legno. “E’ chiusa.” “Sì, ma secondo me la sfondiamo. E’ marcia come la merda” Detto questo Luca si stacco dal camioncino bianco e si avviò verso l’ingresso. Era un’entrata secondaria. La struttura sembrava solida anche se la vernice era screpolata e il legno ammuffito. Luca sferrò un calcio potente all’altezza della serratura. Frastuono nella notte. Dai palazzi nessuno si affacciò. Nessuno si sarebbe mai affacciato. La porta non si mosse. Luca sferrò un altro calcio. Poi Ale si avvicinò e barcollante ci si buttò con il peso e la spalla. Niente. Totò si agitava saltellando qua e là. La Fortezza li scherniva immobile e buia. “Merda!” Provarono altre volte.  Anche in due, con sempre più foga. Niente. Non si muoveva. Si guardarono sudati. “Casa?” disse Ale. “Cazzo no!” Luca era ormai preso da rabbia alcolica incontrollata. Doveva sfondarla. Tornò dal camioncino, si girò e prese la rincorsa. Uno, due, tre, quattro, cinque passi correndo e poi con un grido saltò. Fu un lancio perfetto. Un’esibizione atletica come se ne vedevano poche a Sampi.  A un metro e mezzo dal suolo. Perfettamente parallelo al terreno. Le gambe unite protese verso la porta. Il viso piegato in un ghigno di odio e di sforzo, ogni muscolo teso e le braccia scoordinate roteanti in aria. I piedi impattarono contro la solidità del portone che non vibrò neanche.. Luca fu rimbalzato indietro. L’odio mutò in stupore e Luca cadde di schiena. Con un rumore sordo battè forte la nuca contro l’asfalto. Buio. Il lampione si accese.
Sole. Il suono placido delle onde. Piccoli sassi scuri sotto la schiena riscaldati dal sole. La corrente li muoveva dolcemente dalla spiaggia. Li faceva toccare a vicenda, a migliaia, tutti insieme. Il suono placido delle onde. Sole. Luca aprì gli occhi e fu pervaso dall’odore del mare. Il suo sguardo incontrò quello di lei e uno strano senso di confusione prese il sopravvento. Senza un colore esistente forse azzurro, forse verde. Come un abbraccio, il colore del mare, i suoi occhi. Lei chi era? “Luca…” diceva sorridendo. “Luca amore mio!” I capelli mossi, forse castani, forse biondi. E quel ciuffo che le cadeva sul viso. ”Vieni andiamo… andiamo a fare il bagno!” disse allegra. Lo tirò dolcemente per la mano e insieme corsero sui ciottoli ardenti. Lei chi era? Lui dov’era? Com’era bella. L’acqua limpida e fresca, si sprofondava subito. Un gozzo di pescatori tornava lento verso la riva. I remi battevano calmi contro la superficie. E laggiù, oltre la spiaggia, da vecchie case arrivava l’odore di fritto delle osterie. Immerso, Luca sentì il tocco tiepido delle sue mani sul torace. Nuotarono verso il largo e si girò a guardare. Colline verdi in lontananza oltre mille tetti d’ardesia. La Lanterna li guardava. Lei lo baciò e il cuore gli fu subito in gola. Chiari vedeva gli scogli del fondo sotto di loro. La quiete della gente sulla spiaggia. Giovani e vecchi. Famiglie e bambini. Gridolini e risate. “Luca..” lo chiamò lei. Lui si girò e lei gli sembrò un pezzo di mare. “Ma tu chi sei?” Non rispose. Lo guardava come con uno sguardo da cacciatrice. Diana, la dea, forse. “E dove siamo?” le chiese ancora. “Vieni…” disse lei “torniamo a riva. Ho voglia di fare l’amore.” Quasi correndo uscirono in mille schizzi dall’acqua. Le persone sorridevano guardandoli. Lei lo travolgeva come un uragano caldo, ed insieme si accasciarono sui sassi. Sentì i suoi baci, prima sulla bocca poi sulla guancia, sempre più intensi. Sole. Che bello quel posto. Lingua sulla pelle. Luca rideva. Luce, l’odore del mare. Il sole brillava alto. Chiuse gli occhi. Il lampione si spense.
Li riaprì e la prima cosa che distinse fu il piccolo carro. Tutti lo sapevano riconoscere. Sin da bambini. Poi la visione si allargò e vide la barba incrostata di Ale fissarlo da poco meno di venti centimetri. “Luca!” Voce roca e una fiatazza di aglio e birra rancida che lo investì nei polmoni. “Stai bene?”. Ma il vero moto ribrezzo  venne quando si rese conto che Totò gli stava vigorosamente slinguazzando la guancia e le labbra. Scattò seduto allontanando con un braccio l’animale “ Echeccristo Totò che schifo!” gridò togliendosi la bava dal viso. Poi raggomitolato sull’asfalto si girò a cercarla, a cercare il mare. Niente.  Una zaffata di pisco da dietro i cassonetti. Per un attimo ebbe un conato di vomito.”Stai bene, andiamo a casa?” disse Ale. Luca fissò la porta verde della Fortezza. Chiusa e immobile. Spavalda. “Fanculo!” disse tirandosi su. Un ultimo sguardo alla piazza poi entrambe si avviarono verso casa. Un cenno di saluto e Luca girò per la sua via. La testa gli pulsava. Aveva voglia di pesce fritto. Aveva voglia di mare. Dal porto la sirena di una petroliera suonò lungamente. Da lontano giunse un’eco. “Vieni qui! Totò lascia stare quei cazzo di topi!” L’odore del mare.  Forse azzurro, forse verde. Il lampione si accese. Poi si spense.

 In fondo anche a Sampi bastava poco per vedere le stelle.



02/06/12

L'assassino


Philip guardava la zingara sul palco. Il boccale di birra coperto di gelida brina stretto nella mano. La zingara suonava il  violino e l’uomo dai pochi denti gialli e storti cantava con una voce calda e suadente. Il suono di quella musica lo portava via lontano e la zingara era bellissima. Sotto un ciuffo di capelli biondo oro Philip la fissava incantato. Passare l’archetto dolcemente sulle corde, persa tra le note riflesse sulla  chioma folta e scura. Il violino costante faceva da musica, come se solo potesse essere orchestra. Philip accarezzò la lama fredda e dura nella tasca dei pantaloni. Buttò giù in un solo sorso il mezzo boccale e fece tintinnare con violenza il bicchiere sul tavolo. “Bravi! Brava!” Gridò mentre in tutta la taverna l’entusiasmo per il piccolo concerto saliva sempre di più. Alcuni vecchi avevano iniziato a battere il tempo col piede sulle assi di legno e lo sdentato cantando si esibiva in pose grottesche dando libero sfogo alla sua voce avvolgente. “ a quest’ora in questura, a quest’ora in questura” cantava seguito incalzante dal violino. Philip tirò con prepotenza una cameriera per la lunga gonna. “Portami un'altra birra donna!” sbraitò. I suoi occhi non si staccavano  da quelli della zingara. Avvolta nella sinuosità delle melodie lei forse ricambiava..forse con malizia. Forse con indifferenza. Philip continuava a tastare la lama nascosta tra le dita nei pantaloni. La sentiva fredda e micidiale. Ghiaccio elettrico, l’idea di poterla usare, di penetrare nella carne viva e pulsante lo esaltava come lo esaltavano la musica e l’alcool. Quanto sei bella zingara. Pensò mentre strappava il nuovo boccale dalle mani della cameriera bionda. “Hei , hei hei!” Cantava ora la folla fumosa della taverna. Al duo si era ora aggiunto un giovane dai capelli scuri. Con una chitarra acustica le melodie volavano sempre più allegre e veloci. Il giovane suonava in un botta e risposta col violino sotto gli occhi divertiti dello sdentato. Il vecchio perso in un’estasi emetteva strani versi a ritmo di musica. Chitarra e violino danzavano armonici di sguardi e Philip strinse forte il filo del coltello. Percepì il sangue colargli lento sul palmo. Appena un graffio tra le linee scavate nella pelle. Chissà se la zingara avrebbe saputo leggerle quelle linee. La vita. La salute. L’amore. Guardò fisso il giovane che danzava ammiccante tra gli accordi e in una frazione di secondo balenò nella mente l’immagine nitida di come li avrebbe ammazzati. Quella capacità istantanea di progettazione della morte era in lui qualità innata ed inspiegabile. Assieme ad una cattiveria profonda ed abissale. Philip il biondo, Philip il bello. La sua anima affondava le radici in un substrato oscuro e marcio. Freddo, preciso, calcolatore oltre l’umano. La bellezza fisica e i capelli biondissimi li aveva ereditati dalla madre morta in una lunga agonia dopo il parto. La prepotenza e l’arroganza dei modi venivano invece dal padre. Henry, il padrone. Signore di quasi tutti i terreni della zona. Philip estrasse la mano tagliata dalla tasca ed unendosi al calore generale applaudì gridando ” Ancora ragazzi! ballate cantate! Ancora, ancora!” Sul suo viso si apriva uno splendido sorriso gioviale. Le mani battevano, le guance erano arrossate di birra e allegria. Ma gli occhi erano grigi e gelidi. Gli occhi vitrei di un assassino che si prepara a colpire. La porta del locale si aprì ed un uomo fece il suo ingresso in mezzo alla festa. Nessuno si voltò, nessuno parve accorgersi del nuovo arrivato ma qualcosa sfrigolò nel cervello di Philip. Un qualche istinto animale di conservazione che lo costrinse a girare la testa. Philip aveva sentito come la carezza di uno sguardo denso sulla nuca. L’ospite era fermo in piedi. Poteva sembrare un mendicante o forse un qualche tipo di frate. Si appoggiava ad uno spesso e contorto bastone scuro che sembrava, anzi era un ramo d’abete raccolto nel bosco. Indossava una tonaca di grezzo tessuto marrone sbiadito fino a sembrare grigio. Dal fondo spuntavano i piedi nudi calzati in sandali di cuoio sgualciti e la testa era coperta da un ampio cappuccio che lasciava costantemente il viso in ombra. Solo la parvenza di una barba argentea si intravedeva nell’oscurità  imperscrutabile. Philip ebbe una sussulto e senti stringersi forte la bocca dello stomaco. Paura? Non era possibile, lui non provava mai paura. L’idea che gli occhi del monaco fossero fissi su di lui era una certezza negata dalle tenebre del cappuccio. Uno sguardo forte. Come se la mano grinzosa del vecchio piano gli stesse stringendo il collo…sempre di più.  Il rumore degli schiamazzi e della musica arrivava ovattato. Il sorriso si spense sul suo viso. Philip non riusciva a muoversi, bloccato inerme dal magnetismo di quella figura. Il respiro ormai fioco, quasi fermo. Panico? Non era possibile. Lui non provava mai panico. Poi d’improvviso un vigoroso strattone lo scaraventò fuori da quell’impasse irreale, riscuotendolo. Il chiasso della taverna lo investì nitido in un’esplosione di voci, musica e odori. La cicciona rossa del tavolo affianco lo stava tirando per la spalla invitandolo a ballare. Un cerchio di uomini e donne  si era creato davanti ai suonatori. Voce chitarra e violino spingevano ora più che mai e il sentore di birra e fumo stagnava caldo nell’aria. La cicciona puzzava di sudore e gli sorrideva languida. Philip le posò una mano sulle chiappe flaccide e strinse. La cicciona ubriaca sorrise con un gridolino. Lo tirò ancor più verso di sé e  gli piantò in faccia due enormi tette molli e sproporzionate. I due si persero nel ballo. Nel trambusto Philip cercò la figura del monaco all’ingresso ma era sparita. Forse non era mai esistita.   Mentre ballava con la balena ubriaca Philip guardò nuovamente la zingara e il chitarrista. La cicciona cercava di strusciarsi in ogni modo. Contro la sua coscia flaccida sentì la consistenza del coltello che aderiva alla gamba. Philip guardò la zingara e il chitarrista e i suoi occhi di ghiaccio brillarono di nuovo.

Appostato nel buio dentro al recinto dei cavalli Philip aspettava. Il coltello lampeggiava alla fioca luce della lanterna . Faceva scorrere delicatamente il filo contro uno dei grossi legni dello steccato. L’acciaio di quella lama era di una qualità superiore. Leggera ed allo stesso tempo spessa e inflessibile. Era un coltello non più lungo di un palmo ma era affilato come un rasoio. Una lunga e profonda incisione rimaneva solcata nel legno ad ogni passaggio del metallo. Philip guardava la porta della taverna. Era ormai notte tarda e anche gli ultimi ubriachi erano stati cacciati dal locale. Loro sarebbero usciti per ultimi. Insieme al padrone, pensò. Zing! Zing! Ad ogni vibrazione d’acciaio i cavalli nitrivano scalpitando nervosi alle sue spalle. Inquietati da quel suono e dalla sua malvagia presenza. Il cielo nero rombava distante. Immense nuvole plumbee ristagnavano da qualche giorno ormai. Ogni tanto scatenavano un inferno di acqua e fulmini per poi tornare cupe a scrutare dall’alto la terra. Sembrava che non sarebbero più andate via. Ma a Philip questo andava bene perché quella notte non il più piccolo bagliore di luce filtrava attraverso la coltre. Il buio era totale. Immerso nella pece era solo sfiorato dall’idea di fiamma che illuminava l’ingresso della taverna bruciando appesa in una vecchia lampada ad olio . Anche se avessero scrutato con insistenza il punto esatto in cui si trovava, non sarebbero riusciti a scorgerlo. Uscendo dal locale illuminato i loro occhi sarebbero stati come ciechi e lui avrebbe agito. Libero, rapido e protetto dalla densità oscura ormai parte di lui. Filtrata lenta nel suo corpo attraverso i pori. Attraveso l’iride. Quella notte Philip il biondo impersonava le tenebre. Un tuono e un lampo squarciarono l’aria e la terra tremò. I cavalli si agitarono convulsamente nitrendo e scalciando. Philip si girò di scatto e sferrò uno schiaffo potente sul muso dell’animale più vicino. Maledette bestie! Forse avrebbe potuto iniziare la serata con un lavoretto di lama su di uno di quei corpi pelosi. Così, giusto per ingannare l’attesa. Biglie d’acqua rade e pesanti iniziarono colpire le colline. Presto la polvere sarebbe diventata fango. Philip udì il cigolio della porta che si apriva. Ci siamo pensò. Un brivido di adrenalina percorse il suo corpo. Si acquattò fino quasi a sdraiarsi sotto l’ultima asse del recinto e strinse forte l’impugnatura consunta del suo strumento di morte.

Dal locale uscirono il padrone e la moglie, il cantante dai denti gialli e poi lei, la zingara. La provocazione della sua bellezza era uno schiaffo di sfida. I lunghi capelli neri, quel corpo magro e sensuale sotto i vestiti malconci. Uno sguardo profondo, più scuro del buio che opprimeva ogni cosa. Philip trattenne il respiro. Dalla porta uscì anche lui, il ragazzo, stringendo la chitarra e il violino di lei. La grassa risata dell’oste scoppiò più fragorosa dei tuoni che arrivavano da lontano.

“Chiquita! Chiquita, chiudi sta vacca di taverna che io e il mio amico zingaro ci andiamo a sbronzare!” gridò alla moglie. Mentre questa girava il chiavistello, l’oste tirò una vigorosa manata sulla schiena del cantante. “Vecchio mio!... ora ti fassio assaggiare una bottiglia di whiscky che non hai mai provato in vita tua” sbiascicò tra i fumi dell’alcol. “ Settantacinque anni nel legno di rofere…il più aromatico che ci sià! Il più aromatico!”  Lo sdentato sorrideva e annuiva mostrando i suoi moncherini ocra. “Chiquita sbrigati prima che sta sporca…prima che sta porca di pioggia ci porti via tutti quanti…gente venite con noi!” disse rivolto alla zingara e al ragazzo. Bastò uno sguardo d’intesa tra i due. “Grazie oste” disse la voce suadente della zingara “ma ho bisogno di riposare…credo che andrò a sdraiarmi nel mio carro. Questo nobiluomo mi accompagnerà per la via… e poi, credo, si ritirerà..” Strinse appena la palpebra sinistra in un segnale inconfondibile. L’oste scoppiò in un’altra assordante risata. “Coome vuole lei signorina!” gridò ammiccando. “vieni vecchio mio…Chiquità muoviti che spio…muoviti che piove!” “Non fare tardi papà!” gridò la zingara allo sdentato mentre i tre già si avviavano verso la strada. Rimasti soli, sotto la fioca luce della lampada,  senza dire una parola i due ragazzi si baciarono.  Tenerezza e passione. Labbra perse nelle labbra. Dita contro le pelli di due corpi che si scoprono. In un abbraccio stretto, il profumo dei suoi capelli. La forza delle sue mani. Groviglio di carne calda pulsante di sangue, saliva, liquidi umani. Cercandosi, toccandosi, fondendosi in una sola essenza, tra reazioni chimiche e catalizzatori. Esseri legati in un unico assurdo nodo antropomorfo. Gli amanti. Nonostante la pioggia. Nonostante il buio. Il ragazzo lasciò cadere gli strumenti sul patio di legno e strinse forte la zingara.

A quel punto Philip scattò. Decise che aveva visto troppo. Insensibile, gelido, sorrise e scattò. Ora vi ammazzo come cani. Si mosse rapido nell’oscurità. Fulmineo e silenzioso in un solo movimento si alzo e balzò in avanti col braccio e il coltello protesi verso i due amanti. L’attimo nella sua mente visionò la punta d’acciaio che penetrava nella nuca di lei e nel collo di lui inchiodandoli assieme alla porta senza che avessero il tempo di emettere un grido. Dopo, lordandosi del loro sangue li avrebbe guardati morire. Ma non andò così. Una frazione di secondo dopo che il suo corpo era scattato un lampo illuminò il cielo e un cavallo nitrì. Il garzone perso nel bacio aprì gli occhi e percepì che qualcosa li stava per colpire. D’istinto si buttò di lato sul patio trascinando con sé la ragazza senza che neanche le due bocche si staccassero. Il garzone vide distintamente la lama sfiorargli la guancia brillando alla luce del lampo, sentì lo squarcio che si apriva nella carne tenera  in un graffio doloroso. Mancato il colpo Philip incespicò sui due corpi buttati di lato. Con la testa scontrò la lampada ad olio che cadde spegnendosi sul terreno ormai fangoso sferzato dalla pioggia. Cazzo! Pensò. Il coltello si piantò secco nel legno della porta e con stupore Philip sentì la vibrazione del fendente risalirgli fino alla spalla. Non ci poteva credere. Aveva mancato il colpo! La Zingara gridò forte. Nella caduta i due crani avevano cozzato forte, denti e lingue si erano morsicati come se i due stessero cercando di divorarsi a vicenda e piacere del sesso aveva lasciato il posto ad un orrifico sapore di sangue e saliva.  Canini spezzati tra le gengive nel contraccolpo. Orrore. Istinto. Quello del garzone funzionò. Spinse via la zingara gridando “Corrì!” Si rialzò e sferro un calcio alla cieca verso l’aggressore.  Philip confuso stava ancora scivolando con i piedi infangati e il viso schiacciato attaccato alla porta. Non era ancora riuscito a lasciare l’impugnatura dell’arma bloccata nel legno. Il calcio lo colse completamente impreparato. Sentì la bocca dello stomaco accartocciarsi negandogli il respiro. Emettendo un rantolo si piegò in ginocchio per il dolore. Il giovane dai capelli scuri  si era buttato in strada dietro alla zingara.  Ma il dolore atroce di Philip durò solo un secondo. In un lampo fu di nuovo in piedi e con uno strattone vigoroso estrasse il coltello dall’asse di quercia della porta della locanda. Ogni muscolo gli vibrava d’odio e i suoi occhi malvagi dardeggiavano nel buio.  Grugnì vigorosamente di rabbia. Non poteva far riconoscere la propria voce. Aveva mancato il colpo! Bastardi! Vi ammazzo!Non mi scapperete. Siete morti! Siete morti tutti e due!  Philip era più forte. Philip era più veloce, era  più atletico. I suoi occhi vedevano perfettamente anche nel buio più assoluto. Ma soprattutto Philip era capace di uccidere. Non ci sarebbe stata lotta. Non avevano scampo.

Philip si girò per lanciarsi all’inseguimento ma di colpo il panico lo attanagliò. Restò fermo come un blocco di pietra nello slancio. Il cuore palpitò di un battito sfasato e quasi dal torace non gli sfuggì lo stridulio di un grido. Iniziò ad arretrare con le gambe tremanti finchè le spalle non toccarono  la parete esterna della locanda. Non è possibile. Pensò. Non era possibile ma lui lo vedeva. Fermo nel buio appoggiato al suo bastone. Esattamente nel punto dove lui poco prima si era acquattato per tendere l’agguato. Lo scrutava nero e immobile dalle tenebre del recinto. Sferzato dalla pioggia, immobile come il moncone di una grossa quercia bruciata dal fulmine. Volto imperscrutabile sotto l’oscurità del cappuccio. Il monaco avanzò deciso verso Philip. Questi non riusciva a distogliere lo sguardo, non riusciva più a muoversi. Ad ogni passo del vecchio l’orrore cresceva sempre più incontrollato. Avrebbe voluto fuggire, avrebbe voluto gridare ma non riusciva e non capiva neanche quella sensazione. Lui non provava mai paura, mai! Specie per un inutile vecchio frate o mendicante che fosse. Eppure si era fatto statua di sale e non era più in grado di muoversi. Presto il monaco lo avrebbe ucciso.
Un lampo imbiancò il cielo e il biondo ne fu accecato. Philip chiuse gli occhi e li riaprì.

Li riaprì. Cercò il vecchio ma non lo vide. Solo tenebre e pioggia incessante. Quanto tempo era passato? Un secondo. Dieci minuti. Tre ore.  Non riusciva a capire. Più di quello che gli era parso.  Il vecchio non c’era più. Soffocato dallo scrosciare dell’acqua in lontananza gli parve di percepire delle grida. I giovani erano arrivati alla casa dell’oste. Presto sarebbero tornati con le torce e i forconi. Sarebbero arrivati in molti. Anche con i fucili. Si guardò intorno per vedere se l’uomo non si fosse nascosto da qualche parte ma non c’era nessuno. Altre grida lontane ma non così tanto. Era il momento di andare. Vagliò le possibilità che aveva e in un attimo prese una decisione. Entrò nel recinto, salì su un cavallo a caso e si lanciò al galoppo nel buio sui prati. Verso la tenuta. Lì di sicuro non sarebbero venuti a cercare. La pioggia avrebbe cancellato le impronte. Cavalcando a pelo si lasciava sferzare il viso dall’acqua. Ma l’immagine del vecchio restava fissa e inquietante nei suoi occhi. Subito prima di quella della zingara e degli amanti. Tastò la lama gelida nella tasca dei pantaloni. Non sarebbe finita così. Quella pioggia splendida sulle colline. Sembrava davvero non dover smettere mai.