Il suo principio di base era non lavorare. Quando arrivammo stava
facendo esattamente questo. Non lavorava. Era seduto all’ingresso del paese con
il cappuccio grigio della giacca tirato su. Guardava fisso un punto davanti a
sé. Di fronte la vista si estendeva.
Colline ripide scure e boscose, punteggiate di case e paesi inerpicati nel
nulla. Lontano, in fondo, Il mare. Ma i suoi occhi non sembravano così distanti.
Erano fissi nel grigio del cielo a non più di cinquanta metri dal suo viso. Di
spalle, non ci sentì nemmeno arrivare dal sentiero. Il che fa strano se vivi in
un posto dove sostanzialmente non c’è nessuno. Ogni rumore, soprattutto quello
di passi dovrebbe attirare la tua attenzione. Di primo impatto intimoriva.
Sembrava un presagio di morte. Muto e senza volto all’ingresso del villaggio
abbandonato. Rispose solo al terzo saluto, per nulla stupito di vedere due
facce nuove in quel posto. Il folle sulla collina viveva così. Senza fare
nulla, quasi avvolto nell’edera. L’amico delle capre aveva un senso. Nella sua
solitudine triste e profonda. Ma tutto il resto odorava di insano. Nessuna
delle case era stata davvero risistemata. Semplicemente quelle il cui pavimento
era camminabile erano state occupate. Catene e lucchetti chiudevano alcune
porte. “Canate non è per tutti, te la devi conquistare” era la scritta su una
di queste porte, subito accanto parole deliranti sull’ira di Dio verso i
peccatori. Anche nelle case abitate lo stato di abbandono era palesemente
percepibile. Catene e lucchetti ponevano soltanto divieti arbitrari su
proprietà fasulle, fatte di nulla nel nulla. Quando ci sedemmo a mangiare il
folle si affacciò da una finestra della casa di fronte. Si mise a ridere perché
una gatta spelacchiata ci chiedeva del cibo. Rideva davvero di gusto,
divertito. Come se fosse la scena migliore che gli capitava di vedere da mesi.
Poi venne giù sgambettando di corsa. Teneva una bottiglia e delle tazzine in
mano. “Brandy?” ci disse e versò tre bicchieri di brodaglia color rame. Parlava
e sembrava felice che fossimo lì, probabilmente ancora per la scena del gatto.
Il brandy era pressoché imbevibile e tutta l’attenzione non riusciva a non
essere concentrata sull’enorme pustola gialla che pulsava sulla guancia del
folle. Sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro. Ci raccontò che al
massimo erano una decina a vivere in paese. Tutti suoi amici. Lui viveva lì da
quasi un anno e mezzo ma non riusciva a stare sette giorni su sette. Ogni tanto
doveva scendere in città e lavorare. Accennò sconclusionatamente al farsi il
pane da soli e ad avere il grano per
poterlo fare, perché il suo obiettivo era quello di non lavorare più. Guardai
le sue mani. Erano luride ma non erano sporche. Mani che non avevano mai dato
un colpo di zappa. Ci guardava con curiosità e diffidenza. Cercavo un istante,
in cui rovesciare il brandy nell’erba lontano dal suo sguardo ma i suoi occhi
non mollavano mai. Forse per via delle preziose tazzine in cui stavamo bevendo.
Tazzine che avevano tutta l’aria di essere state taccheggiate in un bar della
Val Bisagno. Nel frattempo di bicchieri se n’era scolati tre. Ci ammonì di non
fare foto alle cose private, tipo le magliette stese. Poi ci confidò che la
casa accanto alla sua era ancora buona e che se avessimo voluto avremmo potuto
prenderla e viverci. Bastava chiuderla con una catena. Più si lasciava
trasportare dalla foga dei discorsi più la pustola sulla guancia si tendeva
tremolando. Sembrava essere lei, la pustola, la mente pensante della
situazione. Disgustosa gli suggeriva le parole tra una risata e l’altra. Mi arresi. Gli dissi che avevo problemi di
stomaco e che mi spiaceva ma non riuscivo a bere il suo pur buonissimo brandy.
Si rabbuiò immediatamente, mi disse che avrei potuto avvisarlo e riversò la mia
tazzina all’interno della bottiglia. Subito dopo se ne versò un quarto
bicchiere. Per curiosità e per non contrariarlo entrammo a dare un occhio alla
casa. Due piani. Dentro non c’era nulla. I pavimenti di legno reggevano ma lo
scricchiolio dava l’idea che potessero sfondarsi da un momento all’altro. Non
c’erano vetri alle finestre e il soffitto di legno del secondo piano pendeva
pesantemente sulle stanze, marcio e gonfio di umidità. Anche volendo ci
sarebbero voluti anni per poter rendere quel posto vivibile. Non ci lasciò
entrare nella “sua” casa ma immagino, essendoci stato già anni prima, che non
dovesse essere in condizioni molto differenti. Al folle della collina però
bastava così. La considerava sua. Non lavorava. Quando uscimmo era di nuovo
seduto nella posizione originale a fissare il nulla qualche metro davanti a lui
rivolto verso la valle e il mare. Dovetti proprio salutarlo perché si
accorgesse di nuovo di noi. Se fossimo andati via così senza dire nulla non
avrebbe battuto ciglio. Stringendo la sua mano vidi che la pustola era esplosa.
Un senso di viscido si impadronì della pelle delle mie dita. Un senso di
malessere profondo mentre si camminava verso Genova sul sentiero. Non avrebbe
dovuto essere così. Disagio che si autoalimentava isolandosi in un bosco tra le
case diroccate. Mi girai a guardarlo da un po’ più lontano. Immobile fisso nel
vuoto. Brandy?
bellissimo questo post!E, se posso dirlo, una scrittura sempre più sicura
RispondiEliminaE.