26/06/12

Le stelle di Sampi

In fondo anche a Sampi bastava poco per vedere le stelle.  Bastava un lampione di meno. Una luce che si spegneva in alto sulla strada. Controllata da uno stupido meccanismo per il risparmio energetico. Spenta, le stelle. Accesa, il solito squallore.  Pietra asfalto e cemento in cui proliferavano i topi. Luca guardava le stelle. Appoggiato ad un camioncino bianco, la sigaretta dimenticata accesa tra le dita. Proiettava lo sguardo oltre la luce arancione di quel lampione. Sui puntini bianchi del piccolo carro. Il piccolo e il grande carro. Non conosceva altro del cielo. Ma quelle due forme sin da bambino le distingueva bene. Come tutti. Alzando la testa alla notte le sapeva vedere. Semplici, dirette, presenti nel buio. A volte immaginava di vivere in un mondo dove ogni sera calato il sole non ci fosse luce. Avvolto nelle tenebre ci sarebbe stata solo una coperta di stelle. La fiamma di un fuoco o di qualche candela non sarebbe bastata a coprirle, le stelle. Sul mare. Nel bosco. L’essere si sarebbe lasciato divorare da quella sensazione di immensità e Luca si sarebbe sentito piccolo piccolo. Invisibile. Una cacchettina di formica nel cielo infinito. Un tempo così doveva essere già esistito. Indietro lontano, ma neanche poi troppo. Ehi ma che cazzo di pensieri faceva? Il lampione si riaccese accecandolo. “Cristo!” mormorò  stringendo gli occhi ed abbassando la testa. Il viso tornò ad un mondo più finito.  Sul camioncino appoggiato affianco a lui Ale stringeva un bicchiere di birra ormai calda e bavosa.  Ubriaco ciondolava da un piede all’altro fissando l’asfalto. Ognuno perso nei propri tristi alcolici pensieri. Luca guardò l’ora. Le tre di notte. Com’era che erano finiti a bere l’ultima birra in via Sampierdarena? In un kebabbaro tra papponi puttane e porci clienti. Non lo ricordava,  ma quella birra in fondo ci stava.
 Tette. Erano state l’argomento di conversazione principale fino a poco prima. Prima di perdersi in apatici sogni solitari. Tette. Quanto sono belle. “Le tette sono il sale della vita” avevano convenuto. Forme, consistenza al tatto,dimensione dei capezzoli. Avevano parlato di tutto e formulato diverse teorie fisiche sul movimento appendaun (o ballonzolare), fluidità della materia, distanza tra i seni e i coseni e ovviamente stilato una classifica. Di quelle viste, di quelle mai viste, di quelle sognate. Tette che al massimo avevano scrutato come montagnole sotto  strati di maglie e cappotti. Tette che mai avrebbero neanche potuto sfiorare. Ma nella notte, nell’alcool certe immagini ritornano e se ne parla a lungo ubriachi.
D’improvviso Totò fece trambusto. Ci fu una convulsione di squittii e una decina di grossi ratti  fuggì da dietro i cassonetti. “Totò lascia stare i topi!” gridò Ale. Il cane zoppicante spuntò tra i bidoni con lo sguardo di chi l’aveva fatta grossa. Era un fascio nero di muscoli. Muso aggressivo ma due occhioni dall’espressività quasi umana. Totò era un buon cane. Giocoso e ubbidiente. Mai cattivo con gli uomini e sempre pronto a inseguire un gatto o un fascista. Da qualche tempo una grossa cisti sulla zampa anteriore lo faceva zoppicare vivacemente. Riscossi dal torpore alcolico i due ubriachi si fissarono. Totò placido scodinzolava in attesa. “Che cazzo facciamo?” disse Luca.  “Boh!” rispose Ale e si scolò d’un sorso il resto di quello che ormai proprio sembrava piscio. Avrebbero potuto  trattare l’argomento culi ma ormai sapevano già tutto e poi non dava tanta soddisfazione quanto l’argomento tette. Si guardarono intorno nella piazzetta del mercato.  Macchine posteggiate dappertutto, lerciume, asfalto crepato, palazzi alti sette-otto piani. VALENTINA CICCIOBOMBA scritto su un muro, cicche di siga ovunque e qualche falce e martello qua e là. Il lampione si spense e quasi in contemporanea i loro sguardi si posarono dritti davanti a loro. Una porta in legno dipinta di verde scuro sembrava scrutarli con aria di sfida. Sopra quella porta la Fortezza. Una villa ottocentesca piazzata così in mezzo al quartiere. In realtà Sampierdarena era piena di quelle ville, piena anche di torrette medievali e un tempo di aiuole e di verde. Chissà che bella che era. Indietro lontano, ma neanche poi troppo. La spiaggia, il mare. La vita che proliferava, i mercati, la pesca, le osterie, il verde, l’aria pulita. Poi venne il Fascismo. Decise che tra Sampierdarena e Genova c’era una collina di troppo e la terra venne sventrata. La collina tagliata come con una grossa spada e da quel giorno, da quel vuoto a Sampi arrivò il vento. Fredda, dura, cattiva. La tramontana ti martella sul collo in autunno e in inverno. Fa cadere i vasi, sbattere porte e persiane, rabbrividire sotto i baveri dei cappotti. Poi, più avanti, si costruì il porto. Non più ciottoli e barche da pesca ma lastre in cemento e petroliere. Lunghe lingue grigie sull’acqua sempre più nera. Luci a giorno anche di notte, grossi camion rombanti. Migliaia di formiche a caricare e scaricare container a volte cadendo, a volte rimanendo schiacciati, non bagnandosi mai più in quelle acque. Arti lasciati a muoversi tra le grida, strappati dal corpo. Acque ormai nere per l’eternità.  Ratti di terra sulle banchine, pesci di fogna al di qua della diga, Cefali orrendi brulicanti intorno agli scarti umani, topi di cielo nell’aria inquinata. Gabbiani assassini in cerca di prede da uccidere, insulsi piccioni e fiumi di guano.  Lucido e bianco. Quel porto è una merda. In quel porto visse e proliferò la lotta proletaria. Ma quel porto è comunque una merda. Poi venne l’acciaieria di Cornigliano e i venti tenebrosi trasportati oltre il ponte. Fuliggine nera sui vecchi palazzi, strato dopo strato… e dalle facciate i volti di pietra iniziarono a lacrimare catrame. Fecero grandi strade e sempre più macchine iniziarono a passare. A fermarsi, ad essere lasciate ai bordi delle vie. Parcheggio, lo chiamano.  Sempre di più. Accatastate quasi una sull’altra. E quando le macchine furono così tante che tutte insieme non riuscivano a muoversi costruirono una strada sopraelevata per farle volare. Strada Aldo Moro. Pilastri d’acciaio a sfondare il cemento. Sopra si vola sotto si soffre. Metropolis. Camionisti,  vecchi e puttane tra quei piloni bluastri. Poi si decise che l’antico quartiere di osterie sul mare non andava più bene. Che cazzo, erano case vecchie, umide, stantie! Non consone ad un quartiere moderno. E poi il mare non c’era più. Ora c’era il porto. La Coscia, così si chiamava, venne rasa al suolo. Al suo posto furono eretti enormi palazzi da una ventina di piani. Monumenti alla modernità. Che belli i grattacieli! Spiccano verso l’alto creandosi il vuoto intorno. Desolazioni senza marciapiedi, ombre lunghe sulle strade stracolme di motori. Formiche intellettuali a chiudersi ogni giorno negli uffici di vetro. Vetro azzurro, lucido splendente. Pareti a strapiombo che si colorano di cielo. Grigio o blu. Le rondini migrano ogni autunno, ogni primavera. Rumori sordi di schianto. Chiazze rosse di sangue su quelle finestre. Com’è bello il cristallo che sembra cielo. Sampierdarena. Migliaia di edifici costruiti ovunque ci fosse uno spazio libero, sempre più alti sempre più vicini. Fin quasi a lassù sulla cresta dei monti. In mezzo le case, le fabbriche,  le ville di un tempo. Oggi a volte ospedali. A volte uffici. A volte scuole. W la fica sull’affresco di un putto. A volte in rovina. Tra queste, la Fortezza. Prima villa, poi scuola, poi niente. A morire di nulla nella piazza del mercato. Ci ospitiamo dei profughi? Dalla Tunisia dalla Libia, scappano dalla guerra. Non si può. Qualche pivello mentecatto si sente invaso. Fa esplodere una bomboletta di gas da campeggio con un petardo lì dentro. LA BOMBA!!! Riportano i giornali. E allora no. Ancora niente, ancora vuoto nella Fortezza in mezzo al mercato.
La porta verde. Fu Luca il primo a dirlo. “Entriamo lì dentro…”  ”Dove…alla Fortezza?”  chiese Ale, ma sapeva di cosa stava parlando. Lo sguardo dei due era fisso sul legno. “E’ chiusa.” “Sì, ma secondo me la sfondiamo. E’ marcia come la merda” Detto questo Luca si stacco dal camioncino bianco e si avviò verso l’ingresso. Era un’entrata secondaria. La struttura sembrava solida anche se la vernice era screpolata e il legno ammuffito. Luca sferrò un calcio potente all’altezza della serratura. Frastuono nella notte. Dai palazzi nessuno si affacciò. Nessuno si sarebbe mai affacciato. La porta non si mosse. Luca sferrò un altro calcio. Poi Ale si avvicinò e barcollante ci si buttò con il peso e la spalla. Niente. Totò si agitava saltellando qua e là. La Fortezza li scherniva immobile e buia. “Merda!” Provarono altre volte.  Anche in due, con sempre più foga. Niente. Non si muoveva. Si guardarono sudati. “Casa?” disse Ale. “Cazzo no!” Luca era ormai preso da rabbia alcolica incontrollata. Doveva sfondarla. Tornò dal camioncino, si girò e prese la rincorsa. Uno, due, tre, quattro, cinque passi correndo e poi con un grido saltò. Fu un lancio perfetto. Un’esibizione atletica come se ne vedevano poche a Sampi.  A un metro e mezzo dal suolo. Perfettamente parallelo al terreno. Le gambe unite protese verso la porta. Il viso piegato in un ghigno di odio e di sforzo, ogni muscolo teso e le braccia scoordinate roteanti in aria. I piedi impattarono contro la solidità del portone che non vibrò neanche.. Luca fu rimbalzato indietro. L’odio mutò in stupore e Luca cadde di schiena. Con un rumore sordo battè forte la nuca contro l’asfalto. Buio. Il lampione si accese.
Sole. Il suono placido delle onde. Piccoli sassi scuri sotto la schiena riscaldati dal sole. La corrente li muoveva dolcemente dalla spiaggia. Li faceva toccare a vicenda, a migliaia, tutti insieme. Il suono placido delle onde. Sole. Luca aprì gli occhi e fu pervaso dall’odore del mare. Il suo sguardo incontrò quello di lei e uno strano senso di confusione prese il sopravvento. Senza un colore esistente forse azzurro, forse verde. Come un abbraccio, il colore del mare, i suoi occhi. Lei chi era? “Luca…” diceva sorridendo. “Luca amore mio!” I capelli mossi, forse castani, forse biondi. E quel ciuffo che le cadeva sul viso. ”Vieni andiamo… andiamo a fare il bagno!” disse allegra. Lo tirò dolcemente per la mano e insieme corsero sui ciottoli ardenti. Lei chi era? Lui dov’era? Com’era bella. L’acqua limpida e fresca, si sprofondava subito. Un gozzo di pescatori tornava lento verso la riva. I remi battevano calmi contro la superficie. E laggiù, oltre la spiaggia, da vecchie case arrivava l’odore di fritto delle osterie. Immerso, Luca sentì il tocco tiepido delle sue mani sul torace. Nuotarono verso il largo e si girò a guardare. Colline verdi in lontananza oltre mille tetti d’ardesia. La Lanterna li guardava. Lei lo baciò e il cuore gli fu subito in gola. Chiari vedeva gli scogli del fondo sotto di loro. La quiete della gente sulla spiaggia. Giovani e vecchi. Famiglie e bambini. Gridolini e risate. “Luca..” lo chiamò lei. Lui si girò e lei gli sembrò un pezzo di mare. “Ma tu chi sei?” Non rispose. Lo guardava come con uno sguardo da cacciatrice. Diana, la dea, forse. “E dove siamo?” le chiese ancora. “Vieni…” disse lei “torniamo a riva. Ho voglia di fare l’amore.” Quasi correndo uscirono in mille schizzi dall’acqua. Le persone sorridevano guardandoli. Lei lo travolgeva come un uragano caldo, ed insieme si accasciarono sui sassi. Sentì i suoi baci, prima sulla bocca poi sulla guancia, sempre più intensi. Sole. Che bello quel posto. Lingua sulla pelle. Luca rideva. Luce, l’odore del mare. Il sole brillava alto. Chiuse gli occhi. Il lampione si spense.
Li riaprì e la prima cosa che distinse fu il piccolo carro. Tutti lo sapevano riconoscere. Sin da bambini. Poi la visione si allargò e vide la barba incrostata di Ale fissarlo da poco meno di venti centimetri. “Luca!” Voce roca e una fiatazza di aglio e birra rancida che lo investì nei polmoni. “Stai bene?”. Ma il vero moto ribrezzo  venne quando si rese conto che Totò gli stava vigorosamente slinguazzando la guancia e le labbra. Scattò seduto allontanando con un braccio l’animale “ Echeccristo Totò che schifo!” gridò togliendosi la bava dal viso. Poi raggomitolato sull’asfalto si girò a cercarla, a cercare il mare. Niente.  Una zaffata di pisco da dietro i cassonetti. Per un attimo ebbe un conato di vomito.”Stai bene, andiamo a casa?” disse Ale. Luca fissò la porta verde della Fortezza. Chiusa e immobile. Spavalda. “Fanculo!” disse tirandosi su. Un ultimo sguardo alla piazza poi entrambe si avviarono verso casa. Un cenno di saluto e Luca girò per la sua via. La testa gli pulsava. Aveva voglia di pesce fritto. Aveva voglia di mare. Dal porto la sirena di una petroliera suonò lungamente. Da lontano giunse un’eco. “Vieni qui! Totò lascia stare quei cazzo di topi!” L’odore del mare.  Forse azzurro, forse verde. Il lampione si accese. Poi si spense.

 In fondo anche a Sampi bastava poco per vedere le stelle.



1 commento:

  1. Un quadro. Di notti come tante, quindi uniche.

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