05/09/18

La favola di pane e neve

C'era una volta una mamma che viveva con la sua bambina in una valle di montagna. Questa valle era chiamata la Valle Bianca. Era detta così perché durante i lunghissimi inverni era solita cadervi tantissima neve. Si posava sulle le cime dei monti, sugli alberi dei boschi, sui pianori, sui letti dei ruscelli e sui grossi massi sparsi qua e la tra i pendii. Tutto si colorava di candido e brillante tanto che,  nelle fredde giornate di sole, ogni cosa risultava abbagliante. Bianca di neve diventava anche la casetta dove vivevano ,tutte sole, la mamma e la sua bimba. Avevano una grossa mucca che dava loro latte fresco tutto l'anno, raccoglievano i  frutti del bosco e coltivavano l'orto in primavera e in estate e d'inverno vivevano delle scorte accumulate e di qualche coniglio o di qualche parte di stambecco che portavano loro i cacciatori che passavano nella zona. Vivevano di poco, felici e in solitudine godendosi la bellezza e il silenzio delle montagne. Assieme a loro belava gioiosa anche una capretta. L'avevano trovata all'inizio dell'autunno, una volta che andavano per funghi.  . Beeeh! Beeeh! aveva sentito la mamma e correndo nella direzione del triste belato l'avevano scorta ai piedi di un dirupo dal quale era caduta.  Aveva il muso tutto graffiato e una zampina rotta in una brutta maniera. La mamma l'aveva raccolta e portata a casa dove le aveva fasciato  la zampa con un ramo d'abete.  Le avevano dato del latte tiepido e dolce e molte carezze per consolarla. La capretta però soffriva molto e la bimba, che aveva un cuore grande e generoso, provava tanta pena per quell'animale. Le stava sempre vicina e addirittura la lasciava dormire nel calduccio del proprio giaciglio.  La teneva stretta, stretta e le regalava parole di conforto nel buio della sera. Mentre fuori con le prime nevi infuriava il vento  e, dentro,  il fuoco scoppiettava nel camino. Quando la bambina le stava vicino, il dolore sembrava attenuarsi. La capra smetteva subito di belare, avvicinava il muso al petto della bimba (non prima di averle dato delle piccole leccatine sulla guancia) e in silenzio rimaneva ad ascoltarla. Stanca del lavoro della giornata la mamma si addormentava mentre la bimba restava anche per ore a vegliare la sua nuova amica. Le parlava sussurrando con parole dolci, le raccontava com'era andata la giornata,  come aveva aiutato nel taglio della legna o nella sistemazione del fieno. Le diceva se era arrivata la prima neve dell'autunno o se improvvisamente era calata una nebbia da non vederci a un palmo di naso. Le spiegava che sperava che il giorno seguente ci sarebbe stato il sole. Sera dopo sera la bimba affidava alle orecchie dell'animale le sue sensazioni, le emozioni che provava vivendo la vita dei monti. Una notte le confidò che quella mattina all'alba aveva visto librarsi nel cielo un uccello così grande e maestoso da rimanere senza fiato. Si era alzato in volo e aveva volteggiato sopra la sua testa spostando l'aria con le sue grandi ali. SHWOSH! SWOOSH! aveva fatto. Poi aveva tirato un grido così acuto che le orecchie le erano sembrate scoppiare e mentre il verso era riecheggiava in tutta la valle tra i boschi e le pareti l'uccello era sparito volando verso il sole oltre le montagne. "Era una aquila!" sosteneva e la capretta la ascoltava sotto il torpore di una coperta di lana. Più spesso però la bambina inventava dei bellissimi racconti. Immaginava mondi fantastici dove giovani eroi combattevano draghi e maghi cattivi. Raccontava di terre di un lontanissimo passato, di laghi giganti e di animali straordinari, di montagne altissime, di orchi, di principi e principesse e di grandi città scomparse il cui ricordo si perdeva nella notte dei tempi. Così per giorni e giorni la bimba e la capra si coricarono assieme e nacquero tantissime storie. La bimba non sapeva bene da dove le saltassero fuori tutte quelle immagini era come se a suggerirgliele fossero il buio oppure le montagne o forse il vento. Il vento che soffiava forte fuori sbattendo echi contro le  rocce  illuminate dalla luna. Alla fine di ogni storia si addormentavano entrambe, serenamente. Si svegliavano assieme soltanto a mattino fatto,  all'acciottolio delle tazze che la mamma posava sul tavolo già piene di latte munto e tiepido da bere.

Fu così che in poco meno di un mese la capretta si ristabilì, prese ad alzarsi in piedi e a camminare pur zoppicando vistosamente. Presto iniziò anche ad uscire e a seguire la bimba nelle sue faccende quotidiane, saltellando in una valle ormai già piena di neve. La bimba e l'animale divennero inseparabili. Giocavano, piroettavano, correvano e quando potevano davano una mano a svolgere i duri compiti che richiedeva la vita d'alta quota. Certo, la capretta zoppicava sempre un po' e più di tanto non poteva fare, ma spesso il suo aiuto fu prezioso e non ci volle molto che anche la mamma si affezionasse a lei e incominciasse a considerarla come una parte della famiglia. Un giorno, mentre pelava le patate da mettere nella minestra, guardò fuori e vide la figlia che si divertiva a scivolare con uno slittino giù da un pendio di neve. Arrivata a valle tirava su per la salita, di nuovo e di nuovo, e poi ricominciava. La capretta arrancando la seguiva. Scendeva giù saltellando tra mille spruzzi di neve e poi risaliva con lei aiutandola a trascinare lo slittino, trainando la corda con la bocca. Pensò che si era fatta proprio un bell'animale e quando la bambina venne per la cena glielo disse e aggiunse che dovevano darle un nome! "E' arrivata all'inizio dell'inverno, è tutta bianca, bianca come la neve...la chiameremo Nives!" disse.  La capra belò in segno di approvazione e alla bimba quel nome piacque subito tantissimo! Così mamma, bimba e Nives continuarono serene le loro giornate in quell'inverno che si faceva sempre più freddo, lungo e pieno di neve.


Un giorno, come talvolta capitava, passò per la Valle Bianca un cacciatore e si fermò alla casa delle due donne. La mamma gli offrì un piatto di zuppa calda e il cacciatore lasciò la coscia di un daino appena cacciato per ringraziare. Dopo che si fu tolto la pelliccia e dopo che ebbe appoggiato le armi su di una panca  fuori dalla porta, i tre si sedettero assieme a mangiare mentre Nives leccava in un angolo la sua scodellina di latte. Ci fu un periodo di silenzio in cui il cacciatore si rifocillò e si riprese dal freddo. Poi la mamma iniziò a chiedere qualche notizia di quello che succedeva a valle e nel regno. "Che si dice giù in paese?"   "Ah grandi notizie!" - disse il cacciatore e staccò con un morso un pezzo gigante del pane di segale che faceva la donna. Oltre alla bontà della zuppa, era nota tra tutti nella zona anche la squisitezza del pane che faceva la signora della capanna nella Valle Bianca. Inghiottì il boccone e proseguì mentre divorava la zuppa. "Pare che il re abbia deciso di venire a caccia da queste parti!" esclamò suscitando un belato della capretta e la curiosità e la meraviglia delle due. "Si dice che voglia prendere degli stambecchi e delle capre selvatiche e che abbia sentito che la nostra regione in  inverno è una delle migliori per la caccia a questi animali. Pare, per altro, che sia ghiotto del loro stufato." La mamma, che i re non li apprezzava molto ribatté subito " Ma il re è un uomo di pianura...vive laggiù in città, che ne sa lui di come ci si muove in montagna! " Il cacciatore per non avanzare neanche un goccio di zuppa stava bevendo direttamente dal piatto "Appunto!" sbiascicò "Saranno il re, un conte e un barone e sono in cerca di una guida. Sarebbe un bel colpo per me se riuscissi a farmi prendere. Io sono il miglior cacciatore di queste parti!"  si vantò l'uomo e la bimba lo guardò con qualche dubbio. Si ricordava almeno di altri tre cacciatori che passavano con una certa frequenza e lasciavano loro prede ben più grosse di quella ma soprattutto erano molto più educati quando si mangiava!  L'idea, però, che camminando sulla neve del bosco,  avrebbe potuto incontrare il re in persona la affascinava moltissimo. Anche il conte e il barone, ma soprattutto il re! La mamma e il cacciatore continuarono a parlare ma l'immaginazione della bambina oramai viaggiava come acqua in un torrente. Come avrebbe confidatoo quella sera alla capretta,  se lo immaginava alto, con i capelli biondi e splendenti ed un cavallo bianco che più maestoso non si sarebbe mai visto in giro. In fondo era il re! E se era il re doveva avere una corona. Tutta d'oro sicuramente. Con un sacco di gemme e brillanti di tutti i colori. Raccontò a Nives di come sarebbe intervenuta in soccorso del re aggredito dall'orso e caduto da cavallo. lo avrebbe salvato e tutti l'avrebbero stimata e ringraziata. Il conte, il barone e anche il figlio del re, il principe che poi si sarebbe sicuramente innamorato di lei e presto l'avrebbe sposata e le avrebbe costruito uno splendido palazzo d'oro proprio lì,  nella Valle Bianca. Quel posto che lei non avrebbe lasciato per nulla al mondo. "Poi ci sarà un sacco di erba fresca anche per te Nives, e tantissime carote che potrai sgranocchiare quando vuoi..." le sussurrò all'orecchio mentre la teneva abbracciata e tutte e due, bimba e capretta , caddero addormentate in un sonno profondo e pieno di sogni.

Ben presto però il racconto del cacciatore finì nel dimenticatoio perché l'inverno quell'anno si fece freddo e duro. Il gelo era tanto intenso che quando Nives sputava, come ogni tanto fanno le capre (ma mai in casa perché Nives era una capra educata), la sua saliva si era già trasformata in un cubetto di ghiaccio prima ancora di arrivare a terra. Gelò persino l'acqua nei ruscelli,  tanto che le due donne per riempirne i secchi dovevano rompere con il piccone uno spessissimo strato di ghiaccio e nonostante fossero solo pochi metri fino alla casa, tempo di trasportarla e si era già congelata! Nei giorni in cui  il freddo  era meno acuto nevicava sempre. Nevicava e nevicava e la Valle Bianca non era mai stata così tanto bianca. La mamma e  la bimba spalavano di continuo intorno alla casa e alla stalla ma la neve continuava ad accumularsi. Dopo qualche giorno di forti nevicate la casetta di legno non si vedeva quasi più. Il tetto era tutto bianco, ne spuntava solo il camino e per uscire si doveva arrampicarsi su pareti di neve che arrivavano all'altezza dei muri. Di fronte alla porta la mamma aveva piantato nella neve una scaletta di corda che permetteva di arrampicarsi più facilmente. La donna era preoccupata, il cibo iniziava a scarseggiare . Di biada raccolta in estate per la mucca e la capretta ce n'era in abbondanza, ma le patate, le castagne, la carne secca e le altre conserve non sarebbero bastate che per poche settimane. Cacciatori con quel tempo non ne sarebbero passati. Per fortuna avevano ancora una buona scorta di grano con cui potevano fare il pane. Ma cosa avrebbero mangiato fino a primavera, pane e neve? Gli altri anni quando si erano trovate in una situazione simile non era stato un grosso problema. Oltre a ciò che i cacciatori lasciavano volentieri in cambio di ospitalità, lei e la bambina scendevano a valle dove potevano scambiare gli utensili di legno, che erano solite lavorare nelle lunghe serate d'inverno,  con i beni di cui avevano bisogno. Ma quell'anno le tempeste e la neve avevano reso impossibile muoversi, era troppo pericoloso. La notte sentivano l'abbattersi delle valanghe sui fianchi delle montagne. Rombi fragorosi che riecheggiavano per minuti e minuti nella notte in tutta la valle. Allora Nives tremava e si stringeva ancora di più alla bimba nel loro giaciglio.  Che cosa mangeremo? si chiedeva la mamma. Pane e neve? La bambina percepiva la preoccupazione della madre e provava a rassicurarla. Diceva che avevano comunque quel buonissimo pane, quel poco di latte che la mucca continuava a dare e che in fondo non avevano bisogno di così tanto da mangiare stando sempre in casa a riscaldarsi. Così proseguivano le giornate tra le tempeste di neve, il pane di segale,i lavori con il legno, i muggiti della vacca, il freddo e i lunghi racconti che Nives ascoltava accoccolata sul fianco della sua amica.

Successe un giorno che la tempesta si fece forte come mai prima d'allora si era visto nella Valle Bianca . Il vento ululava da ogni spiffero, fuori non si vedeva nulla di nulla e dalle nuvole cadeva una quantità incredibile di neve. In casa per parlare bisognava quasi gridare per sentirsi al di sopra del vento e in lontananza si udva a ripetizione il rombo delle valanghe. I tronchi della casa tremavano, la mucca muggiva e nives belava. "Che tempo da lupi!"  escalmò la bambina e Nives belò di nuovo. Ma era peggio di un tempo da lupi perché i lupi, con un tempo così, non si sarebbero mai fatti vedere! La capretta riposava sul giaciglio di paglia, mamma e figlia stavano preparandosi a cuocere il solito pane di segale nel camino quando d'improvviso si sentì rotolare qualcosa giù dalla scaletta contro la porta. PTAPIM! PUM! PAM! Nives belò! "Una frana!" gridò la mamma. "Una valanga!"  gridò la bambina e insieme si precipitarono alla porta a vedere cos'era successo. La spalancarono e il vento entrò con furia nella casa. Si ritrovarono davanti un groviglio di pelliccia da cui uscivano gambe scalcianti e mani che cercavano di afferrare l'aria e c'era un sedere nudo in quella palla di pelo. Si muoveva come se volesse parlare.  "Che essere immondo!" urlò la bambina. "Ah! - gridò la madre-  un demone della montagna!" Si stava già avviando a prendere un bastone con cui scacciarlo quando improvvisamente da quel groviglio peloso, tra mugolii e lamenti infernali, uscì un viso d'uomo con i baffi. Poi un altro e un altro ancora e poi i corpi si districarono e ne emersero tre figure umane ben distinte anche se incrostate di neve. Quella al centro fu la prima a riaversi e la prima cosa che fece fu quella di tirarsi su i pantaloni per coprirsi le natiche. Poi l'uomo guardò stupito le due donne sulla soglia. Loro ricambiarono meravigliate il suo sguardo senza sapere bene cosa fare. Dopodiché l'uomo si alzò in piedi e rivolto agli altri due esclamò: "Per tutti gli ori del mio tesoro! Conte! Barone! abbiamo trovato un riparo!" Allora il Barone baroneggiò , il conte conteggiò e, senza degnare di un saluto le due montanare, si precipitarono dentro correndo di filato verso il fuoco del camino. La mamma e la figlia si guardarono stupefatte. Non c'era bisogno di presentazioni, avevano sentito bene! Se quello che barava era il barone e quello che contava era il conte, quello al centro era sicuramente il re! Le due donne erano un po' disorientate. In fondo non avevano mai visto un re! A pensarci bene neanche un conte e un barone, ma un re proprio, quello sicuramente no! Solo che questo, un re non lo sembrava affatto! Non era alto e biondo, non aveva un cavallo bianco e maestoso ma, soprattutto, non aveva neanche la corona d'oro! Dov'è la corona con tutti i brillanti?  pensò la bimba. Il re in questione era basso e grassoccio. Aveva i capelli grigi e tutti arruffati,  indossava una pelliccia bagnata e spelacchiata e  sul viso aveva due grossissimi baffi anch'essi grigi  e arruffati. Così grandi e lunghi che terminavano ai lati con due enormi riccioli uno più strambo dell'altro. Alla bimba ricordava tanto il mugnaio del paese di valle, dove ogni tanto andavano prendere il grano. Rise tra sé al pensiero di chiamare maestà quell'omino sempre sporco di crusca e farina.  Pur tuttavia, se quello era il re bisognava trattarlo da re. I tre uomini, con  le mani piene di anelli protese verso il camino, fissavano immobili il fuoco come se non ci fosse stato niente altro nella stanza. "Ehm..maestà"  disse ad un certo punto la mamma per rompere il silenzio. "Benvenuti nel nostro umile riparo, qui viviamo con modestia io e la mia figliuola"  Il re si scosse come se fosse stato svegliato da un sogno. "Ah...eh... -si guardò intorno- "Riparo..." disse con un po' di disgusto "Beh sì, ho fame. " affermò bruscamente. "Certo certo!"  sottolineò il conte. "Indubbiamente!"  evidenziò il barone. Che maleducato! pensò la bambina. Ma i re, si sa, sono sempre un po' maleducati e questi non faceva eccezione. "Preparerò subito qualcosa"  disse la madre, pensando che di cibo e per tutti e cinque in realtà ce n'era proprio poco.  "Arriverà a breve anche la vostra guida?" chiese poi ricordandosi del cacciatore. "Oh oh, no no!" esclamò il barone "Uh uh assolutamente no!"  incalzò il conte. "Quel buono a nulla! -strepitò il re - Ha avuto la brutta idea di andarsi a cacciare sotto una valanga e mi ha lasciato a perdermi nella tempesta!"  " Proprio così!" asserì il conte. "Sì sì!" specificò il barone. Che modo strambo di parlare che avevano!  pensò la bimba. Il re parlava come se ci fosse solo lui e i due nobili gli davano sempre ragione. Nives intanto, incuriosita dai nuovi arrivati,  si era avvicinata e stava annusando il didietro del de barone che saltellò per la sorpresa e spinse la capretta verso il conte il quale subito si spaventò  e la allontanò con uno spintone mandandola verso il re. L'animale prese a leccare con insistenza la mano del sovrano. Tutti quegli anelli d'oro erano un gusto completamente nuovo per lei e non voleva proprio staccarsi nonostante sua maestà, cercando di non perdere una certa regalità, tentasse di allontanarla agitando il braccio e nascondendolo dietro la schiena. La scena era buffa e la bambina dovette proprio trattenersi per non ridere. La mamma corse subito a prendere Nives per allontanarla. "Ah!" ululò il re con indignazione asciugandosi la mano sulla pelliccia fradicia. "Che capra insolente!"    "Maleducata!" sbottò il barone. "Non conosce le buone maniere!" affermò il conte. "Però... -continuò il re osservandola bene- ...è proprio un bell'animale."    "Bellissimo!" si affrettò a dichiarare il conte. "Stupendo!" proferì il barone.  Il viso del monarca si accese  "Ho fame mi cucinerai un bello stufato di capra!"   "No!" gridò la bambina e andò correndo ad abbracciare la sua amica capretta. "Chi osa contraddire il re!" sentenziò il conte. "Parola di re parola di legge!" si infervorò il barone.                        La mamma, che era una donna furba ed esperta, non perse la calma. Aveva sentito dire in giro che sua maestà era una buona forchetta e che ci teneva molto a mangiare bene. Mangiava tanto e solo cose di prima qualità. Inoltre aveva inteso raccontare che, ovunque andasse, il sovrano fosse curioso di sperimentare la cucina locale, volendo provare in abbondanza tutte le specialità di ogni zona. "Certo maestà... -disse allora- se stufato di capra volete, stufato di capra avrete." Poi indicò Nives. " Ma guardate bene com'è magro questo animale. Non ne uscirà molto! In più è una capra tanto malata. Guardate come zoppica! Non sarebbe di certo un pranzo da re. Se la teniamo qui in casa con noi è per non farla morire di freddo non certo per offrirla a un sovrano raffinato come voi. Non ne verrebbe fuori neanche un brodino decente!"  La donna vide che lo stava convincendo quindi non perse tempo e continuò "Altro che stufato di capra! Qui nella Valle Bianca la specialità è proprio un'altra. Un piatto così buono e succulento che una volta assaggiato non se ne può più fare a meno. Lo cuciniamo solo tra questi monti e vengono nobili da ogni dove per degustarlo. Ingredienti genuini e gustosi e una salsa segreta come non avete mai sicuramente  assaggiato da nessun altra parte!" Il monarca pendeva dalle sue labbra. "Quando lo si cucina inoltre lo si deve cucinare in grande quantità oppure la pietanza rischia di non venire bene." Se il conte e il barone apparivano perplessi, il re aveva già l'acquolina in bocca e i due nobili non si azzardavano mai a dire nulla prima che lui si esprimesse. "Orsù preparatemelo allora!" ordinò. "Cucinate!" ribadì allora il barone, "Assaggiamo!" ripeté il conte.  "Non ci vorrà tanto" disse la madre sollevata dall'essere riuscita a distogliere l'attenzione dalla capretta ancora abbracciata alla figlia in un angolo. "Giusto il tempo che mettiate ad asciugare le pellicce al fuoco del camino e vi sediate sulle panche attorno al tavolo che verrà apparecchiato. Soltanto dieci minuti e sarà pronto!"  Così, mentre i tre si sistemavano,  iniziò a pensare a cosa avrebbe preparato. E ora...che cosa gli cucino? In fondo qui non abbiamo altro che pane di segale. E fuori c'è soltanto neve. Non  posso mica dargli da magiare la neve! Nel momento stesso in cui formulava questo pensiero il  suo viso si illuminò. Chiamò la figlia e le disse che, mentre lei avrebbe apparecchiato, la bambina doveva uscire con una mestolo e una pentola di rame e riempire il contenitore della neve più bianca e cristallina che fosse riuscita a trovare. Ormai la tempesta era scemata quindi la figlia non avrebbe corso alcun pericolo. "Neve?" chiese stupita la bambina. " Si neve! La più pulita che riesci a trovare. Vai ora e sbrigati!"  disse. Poi corse a mettere tavola. La bimba uscì seguita dalla capretta, si arrampicò su per la scala facendo crocchiare la neve ad ogni passo e poi si fermò. Beh non era un compito difficile pensò. Davanti ai suoi occhi non c'era assolutamente nulla che non fosse del colore candido e brillante della neve appena caduta. Anche per lei che viveva lì da sempre la Valle Bianca non era mai stata così tanto bianca. Trovò un bel gruzzoletto di neve morbida e fresca e  riempì la pentola fino all'orlo. Poi correndo con Nives che le zoppicava al seguito rientrò. Trovò la madre che stava facendo riscaldare il pane tagliato a fette su una pentola nel camino. Un odore caldo e piacevole si spandeva per la casa e i tre uomini seduti al tavolo sembravano imbambolati dalla stanchezza e completamente persi nell'acquolina che gli avvolgeva la bocca. Non la degnarono di uno sguardo. Lei corse dalla madre e le diede la pentola di neve. "Bravissima!"  esclamò questa. Tolse il pane dal fuoco, ne mise tre fette in tre piatti di terracotta poi su ciascun piatto gettò una mestolata generosa della neve portata dalla bambina. Questa non capiva proprio e temeva che la cosa sarebbe andata a finire male. Strinse a se la capra amica di tante notti come a volerla proteggere. La madre non disse nulla e le sorrise. Sempre sorridendo portò i piatti alla tavola del re.  Nel vedere quello che gli era stato servito il conte e il barone sgranarono gli occhi. Non dissero nulla però, aspettando come sempre il parere del re per essere d'accordo con lui. Questi fissò dubbioso il piatto. Poi fissò la donna che non aveva mai smesso di sorridere. Fece girare un po' il contenitore di terracotta e il suo sguardo era sempre meno convinto. "Mmm -disse- ...e come si chiamerebbe questa pietanza?" chiese. "Beh -rispose la donna- è conosciuta come Pangnives...che nel nostro dialetto vuol dire semplicemente Pane e Neve."           " Ah." disse il re. "Pane e neve..." Il barone ed il conte sembravano seduti sulle spine. Non vedevano l'ora che il monarca gettasse i piatti contro la parete per scagliarsi sulla capra e farla stufata oppure arrosto. Invece il re prese in mano la forchetta, tagliò col bordo un pezzettino del morbido pane scuro, lo immerse nella neve e si portò il tutto alla bocca. La bimba strinse ancora di più la capretta. L'uomo masticò a lungo. I due nobili si protendevano sul tavolo pronti a balzare in piedi al disgusto del sovrano. Il re masticò ancora e ingoiò il boccone a fatica. Poi si girò a guardare la donna che lo osservava in piedi accanto alla panca. "Eccezionale -dichiarò- davvero eccezionale! Mai assaggiato nulla di più buono!" E si avventò sul piatto come se non mangiasse da mesi. La bambina non poteva credere alle sue orecchie e la capretta belò in segno d'approvazione. Il conte e il barone rimasero congelati. Fu il barone a rompere il silenzio "Ehm...buonissimo! bisbigliò non molto convinto "Ahm.. favoloso!" si affrettò ad accodarsi il conte ma lo disse solo quasi con un sussurro. Di malavoglia, entrambi si misero a spizzicare il loro ottimo piatto di pane e neve.


Fu così che il re, il conte e il barone rimasero una settimana nella casa di Valle Bianca in cima ai monti. In attesa dello scioglimento delle nevi per poter tornare a valle, ogni giorno a colazione a pranzo, a cena (e un paio di volte anche a merenda) sua maestà volle mangiare soltanto Pane e Neve non degnando più neanche di uno sguardo la bianca capretta. Quando fu il momento di andare, la madre gli disse che, a furia di consumare tutta quella prelibata neve, a lei e a sua figlia non era rimasto molto da mangiare. Il re allora si impegnò a farle recapitare dal giorno dopo una grande scorta di cibi eccellenti che sarebbe bastata per un anno intero. Disse che la scorta sarebbe stata rinnovata di anno in anno purché lei avesse cucinato, durante la settimana invernale in cui il sovrano sarebbe venuto a caccia in quella zona, sempre e soltanto il favoloso piatto di Pane e Neve. Il monarca diede la sua parola e, se anche si sa che spesso le parole dei re valgono meno dell'aria fritta, in quell'occasione fu fatta fede alla promessa. Il re rinnovò una succulenta scorta alimentare di anno in anno e tutti gli inverni andò in vacanza per una settimana nella Valle Bianca. Fu così che nacque la famosa espressione "La settimana bianca". Per ancora molte, moltissime notti al fuoco del camino la bimba poté raccontare le sue storie alla capretta candida come la neve. Mentre fuori, nel buio,  soffiava forte il vento delle montagne.

Augh

Quando Rob entrò all'assemblea il vociare si spense. Calò il silenzio. Tutti si voltarono a guardare l'ingresso della sala. Lui rimase sullo stipite, ricacciò in gola l'ultimo tiro della sigaretta e lo sputò nel gelo del piazzale. Gettò il mozzicone e si fece avanti. Nessuno diceva nulla, allora Rob, calcando i passi verso la sedia mi lanciò uno sguardo. Ripresi a parlare, consapevole che non erano le mie le parole in attesa di essere ascoltate.  "Se non ci muoviamo ora" dissi "il rischio è che più della metà di noi già da lunedì rimanga a casa".  Poco prima ad ogni mia affermazione ribattevano in cento accavallandosi l'un latro e parlandomi sopra.  Ora che c'era Rob però nessuno fiatava. Sapevano che eravamo dalla stessa parte. E che quello che ora io dicevo l'avrebbe presto ripetuto lui  dopo, in altro modo. Continuai, osservandolo e non capendo perché non prendesse  lui la parola. " Se gli diamo il tempo di mandarci le lettere a casa potrebbe essere troppo tardi".  Rob  aveva accavallato le gambe e mi guardava come fosse uno degli altri, come se fosse la prima volta che ascoltava quelle parole. Con quei capelli sembrava un Comanche. Un fottuto capo indiano che se ne stesse lì ad ascoltare cosa aveva da dirsi la tribù prima di parlare. Stringeva in mano uno zippo in metallo e lasciava correre lo sguardo sui volti studiandone con rabbia i lineamenti. Più andavo avanti più lo si sentiva fremere sulla sedia. " Dobbiamo fare qualcosa e farlo ora. Nessuno di noi è diverso. Non dobbiamo accettare il discorso ' tengono me e mandano a casa lui'. Non c'è qualcuno di migliore. Siamo tutti uguali. Per loro noi siamo solo numeri e conti da far tornare". Rob si era sporto verso il centro del circolo di sedie .Tamburellava  con il piede sul linoleum. Gli scarponi da lavoro sembravano far parte di lui . Li indossava anche quando uscivamo la sera. Li aveva indossati anche il giorno del mio matrimonio. Era il testimone. Giacca cravatta, jeans e scarponi da lavoro. Quello era il suo concetto di eleganza. Il bianco di una striatura gli attraversava la lunghezza dei capelli. Vedevo l'impazienza sul suo volto e calcai la mano per  arrivare lì dove volevamo. "Bisogna agire ora appena conclusa l'assemblea. Ci alziamo e andiamo a bloccare i macchinari. Poi mettiamo un lucchettone alla porta e occupiamo la fabbrica." Esplose il vociare e le sedie stridettero tutte insieme.  Cosa dici, come facciamo? E lo stipendio?  Così ci licenziano tutti nessuno escluso! Qualcuno si alzò in piedi agitando le braccia. Non si capiva più nulla e non potevo riprendere la parola. Quello era stato il mio modo per passare il testimone a Rob. Era ancora seduto. Scrutava quello sfogo di massa seguendo i più esagitati. Gli avevo passato la pipa della pace. Quella che ti permette di parlare e di essere ascoltato. Sia alzò e fu di nuovo il silenzio. Augh capo Rob. Falli neri Pensai. Augh. Svettava nella sala.  I suoi capelli ondeggiavano sulle spalle anche se di vento, lì dentro non ce n'era. La luce dei neon si assorbiva nella profondità dello sguardo. Le labbra si erano increspate strette l'una sull'altra. Chi era ancora in piedi si sedette. Rob allungò due passi al centro. La testa china pareva fissasse gli scarponi. Giocherellava con lo zippo nella mano. Aspettò ancora un minuto. Non mi sono mai capacitato di quella teatralità. Mi sono sempre chiesto se fosse una parte vera di lui o se fosse più che altro una recita. Ma funzionava. Alzò il capo e a quel punto parlò.

 Vi sembrerà assurdo ma non ricordo una sola parola di quello che disse. Mi ero estraniato rapito dal fascino di quello che stava succedendo. Lo osservai volteggiare in mezzo agli sguardi. Indicare le persone domandare e pretendere risposte che poi non lasciava concludere. Sentivo il tono della sua voce entrarmi nelle orecchie e scivolare giù fino al cuore. Come il calore di un sorso di ruhm. Lo vidi creare immagini nelle menti. Spezzarci in due con la paura ed il senso di colpa e poi ricostruirci nell'idea della lotta. Aggrottava le sopracciglia e ti faceva credere di stare parlando da solo con te. L'oscurità dei capelli e del velo di barba contrastavano con il pallore del viso. Un capo indiano o Gesù di Pasolini. L'inconfutabilità usciva dalla sua bocca. La logica, la giustizia. Non ricordo per quanto tempo parlò, per quanto danzò in mezzo a quell'arena improvvisata. "... e se anche ci verranno a prendere uno per uno avremo avuto la forze di guardargli negli occhi". Ma quando finì non c'era più nulla da dire. Chi non era d'accordo era stato ferito a morte, preso sul personale e ora non avrebbe reagito. Chi aveva dei dubbi sei li era ingoiati. Anche a forza. Chi invece sperava e voleva, ora era galvanizzato. Una scintilla sarebbe bastata.  Dall'arena mi guardò. Era il modo ancora per passarmi la palla.  Ero esausto. provato da quel flusso di parole dalla densità che si percepiva nell'aria.  Squadrai la folla intorno. Tutte le facce erano come la mia. Sicure dell'inevitabilità di quello che andava fatto. Di quello che lui ci aveva convinti che andava fatto. "Andiamo " dissi. Non c'era altro da dire e tutti insieme ci alzammo. Augh.

Salta con me


 
A Davide non era mai piaciuta l'altezza. Il senso di vuoto lo prendeva dentro tra il petto e la gola anche solo quando buttava uno sguardo giù dalla tromba delle scale. In più l'istruttore di paracadutismo continuava a fissarlo in un modo che non gli piaceva. Però ormai era lì. Perché a fare lo sbruffone con le ragazze prima o poi la si deve scontare... Si voltò verso di lei. Tutto traballava. Lo guardava luminosa in viso e felice come non mai,  seduta sul seggiolino pronta a buttarsi nel vuoto assieme alla sua istruttrice. Gli sparò uno di quei sorrisi che tolgono il fiato e lui cercò di ricambiare, ma gli uscì solo una specie di smorfia. Era pallido, aveva la nausea e il rombo dell'aereo era assordante. Tornò a guardare di fronte a sé. L'istruttore era ancora lì, non aveva detto una sola parola da quando si erano incontrati, lo sguardo fisso contro di lui e la parvenza di un risolino inquietante ad increspargli le labbra. Proprio non gli piaceva. Eppure quello era l'uomo da cui nei prossimi minuti sarebbe dipesa la sua vita. Sarebbero stati stretti l'uno all'altro in una caduta folle dall'alto dei cieli e la sopravvivenza di entrambi sarebbe dipesa dalla volontà di quell'essere. Un brivido inspiegabile attraversò la schiena di Davide dalla cima del collo giù fino al fondo della colonna vertebrale. "Tra poco ci siamo." disse  l'istruttore facendo stridere la voce. Quella frase fu come un colpo di pistola nelle orecchie di Davide. rrrrrrrrrrrrrr Tra. Quel tono acuto, quella r raschiata e un po' masticata nella saliva sputacchiante... d'improvviso la sua mente fu proiettata in un altro tempo e in un altro luogo. Sedici anni, un cassonetto della spazzatura davanti alla scuola. Sull'aereo tutti si alzarono e gli istruttori iniziarono ad armeggiare con le cinghie. A Davide però ora tremavano  le gambe e non riusciva a smettere di guardare l'istruttore che inflessibile continuava a sostenere lo sguardo. Nel ronzio assordante  la ragazza gli gridava cose entusiaste all'orecchio ma lui non la sentiva neanche. Non esisteva più. C'erano solo lui, l'istruttore e, sotto, il vuoto. Un paio di piedi nudi spuntavano agitandosi dal cassonetto. Davide e i suoi amici sghignazzavano di gusto. Senza dire una parola il paracadutista lo tirò verso di sé e lo legò stretto con la cinghia.  Non poteva essere lui, così magro così muscoloso, come aveva fatto? L'odore di marcio saliva nauseante dalla spazzatura. rrrrrr  "Siete dei bastardi! Un giorno ve la farò pagare!" diceva piangendo una voce dal cassonetto. Il portellone dell'aereo venne aperto ed una folata di vento gelido li investì su tutto il corpo. Davide continuava a ridere "Certo Pallozza certo... siamo qui che aspettiamo... faccela pagare!". La ragazza e l'istruttrice si erano  buttate. Forse lei gli aveva mandato un bacio prima di saltare. Legato con la schiena contro il ventre dell'istruttore fu sospinto verso il bordo del portellone. Il vento gli sferzava la faccia. Guardò giù. Non avrebbe dovuto farlo. Le sue membra erano rigide come un pezzo di pietra. Faceva resistenza, mentre l'altro in silenzio lo spingeva in avanti. Sentiva il suo respiro caldo e appiccicoso contro l'orecchio. Lo avevano chiuso dentro e non era più riuscito ad uscire. Erano passate tre ore prima che qualcuno lo sentisse gridare e lo aiutasse a venire fuori. Girò la testa verso di lui più che poteva per quanto poteva. Il paracadutista si arrestò un istante. "P-Pallozza?" chiese Davide con voce tremante. "Non mi chiamo Pallozza." gridò una voce dal cassonetto. E i due si tuffarono nel vuoto.