04/06/13

Le mani sporche


Le mani sporche. Segno di un modo di intendere la vita. L’interazione con il mondo che ci circonda. Mani screpolate nei cui interstizi si accumula polvere, fango, terra. Le mani sporche sono mani che toccano, mani che agiscono, mani che vivono. Seduto di fronte a noi, le mani dell’amico delle capre sono sporche. Così tanto da essere sporco indelebile. Ma la sua voce è tranquilla mentre parla, esce con una serenità diversa anche se si vede che non è tanto abituato a rapportarsi con estranei e con uomini in genere. Le sue parole sono lucide, frutto di lunghe riflessioni nel silenzio delle giornate sui prati. I concetti sembrano espressi con una semplicità sconcertante, anche se profondi ed articolati non lasciano spazio al fatto che quella è una logica giusta e l’altra è una logica sbagliata, o semplicemente non è logica. La stufa in ferro brucia di poca brace dietro. La stanza è minuscola, più facile da riscaldare. Panche e tavolo di legno vecchio. In tre la riempiamo completamente. E’ fatta per uno soltanto. Del pane abbrustolisce in una teglia annerita, sulla ruggine calda della stufa. E’ per le capre ci spiega. Odore affumicato, un po’ di umido, un po’ di freddo, un po’ di bestia. Perfetto per il caffè che ci sta offrendo. Siamo a maggio ma quest’anno il freddo non smette. Entra placido nelle ossa preparate a un po’ di sole e di caldo. Vestiti sporchi. Ci racconta di come sia ormai giunto il tempo della fine dell’era industriale. La necessità per l’uomo di fare un passo indietro. Di ritornare alle terre a vivere in una società rurale. Allevatore, agricoltore. Fare un passo indietro però, ci dice, è più difficile che farne uno avanti.  Il paese, Canate, è vuoto da più di 50 anni. Dopo la guerra i giovani andarono tutti giù a Genova a lavorare in CULMV al porto.  I vecchi, anche quelli che volevano continuare a vivere lì, non ce la potevano fare. Canate si raggiunge solo a piedi attraverso il bosco. Non ci puoi mettere meno di quaranta minuti oggettivi, su di una strada che scende e poi sale e parte da un paese di una ventina di case a nome Marsiglia. Per i partigiani fu una località strategica, serviva per la guerriglia. Base di contatto con la città, rifugio e rifornimento. Tra le case vuote, che sempre più si fanno ruderi, una targa ricorda il coraggio degli abitanti del paese dato alle fiamme dai nazisti per rappresaglia. Fa strano; una storia lontana ormai persa e finita. Omaggio ai fantasmi incrostati in quei muri. Saranno venti le case tre o quattro accessibili le altre in rovina. Pavimenti sfondati, soffitti che crollano, mura aperte tra oggetti di una vita passata, gesti sospesi incompiuti. Le botti in cantina, piatti bottiglie, una scarpa da donna, una giacca appesa ad un muro. L’amico delle capre scuote la teglia del pane e d’improvviso rumore di zoccoli sul legno ed una testa cornuta spunta dalla porta. Le parla. La cosa incredibile è che lei sembra capire. Un pezzo di pane e poi la caccia via con un grido. La parola compromesso per l’amico delle capre non esiste. Si arrabbia quasi a sentirla pronunciare. Commercio è un altro termine che non gli garba.  Gli piace molto però la parola gradualità. Gradualità delle cose, delle scelte con cui si cambia. Gradualmente, così come deve avere fatto lui. Alla domanda d’approccio “come si sta qui?” la sua risposta è stata “ da re!”. La serenità nella voce e nello sguardo, i vestiti, le mani sporche. Non c’è acqua a Canate se non quella della fontana. Non c’è luce, non c’è gas. Cercate di non fare domande standardizzate, ci ha avvertito prima di iniziare a conversare. Chiediamo cose, lui parla. Mai troppo. Quasi mai di sé. Riprende la teglia del pane e usciamo. Sono sette le capre. Bianche e nere. Più un piccolino che sembra un peluche. Gli parla, lo ascoltano e si affollano intorno a prendere il pane. Saltellano ci mordicchiano e ci esplorano. Ne aveva due all’inizio, le altre le ha fatte nascere lui. Si percepisce l’affetto reciproco. D’un tratto saltando la capra più grossa fa cadere una pietra da un muretto a secco ed è subito un ceffone forte sul muso. Gli grida come un marito ubriaco ad una moglie un po’ stupida. La picchia, e poi ancora.  Canate è arroccato sulla collina. Prende il sole e guarda, lontano il mare. C’è silenzio, ci sono i boschi a Canate. Le mani sporche. Le capisco.  Le vorrei. Il mio compagno le ha già, più di me. Solitudine. Totale. Interiore. Neanche una donna ma una capra. Parlare, quando si può. Serenamente ma con fatica, soltanto a sé stessi. Questo non lo capisco.  Le mani sporche, la serenità dello sguardo. Soli, davvero. Il cuore prima o poi va in frantumi. L’amico delle capre, a Canate, c’è da cinque anni.

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